Argentina

La sentinella bianca

Aconcagua 1999

La parete sud dell'Aconcagua

Testo e foto di Giuseppe Pompili

"No te amo como si fueras rosa de sal, topacio
o flecha de claveles que propagan el fuego:
te amo como se aman ciertas cosas oscuras,
secretamente, entre la sombra y el alma."
(Pablo Neruda, "Cien sonetos de amor", XVII)


Un bruciore pulsante s'insinua tra le screpolature delle mie labbra spaccate dal gelo. Mi guardo intorno, sedendomi pesantemente sulle rocce accanto alla croce d'alluminio sbilenca che segna il punto più alto dell'emisfero occidentale. Tutta la luce delle Ande pare convergere sotto la cupola nera del cielo senza stelle, poco al di sotto del confine immateriale dei settemila metri. Sono le prime ore del pomeriggio di giovedì 30 dicembre 1999. Le Ande, osservate da questo punto privilegiato, appaiono come una fascia sottile, scura e tormentata. Mi trovo in vetta assieme a Giorgio, subito seguiti da Marco e Sandra ed infine Maurizio: cinque sui quindici componenti la spedizione  contemporaneamente in cima. Ieri è salito Adriano in solitaria, domani riusciranno Silvia e Frederic. Niente male, per un gruppo di dilettanti. Una ferma volontà, unita a dieci giorni di fatiche, ci hanno portato sin qui. Ma la mia attenzione già divaga, mentre volgo lo sguardo verso occidente, all'invisibile Oceano, alle spiagge di Viña del Mar, dove ci attende un po' di relax, a Isla Negra, eterna dimora di Pablo Neruda cui mi sono ripromesso di fare visita. Dalla cumbre la vista è libera di spaziare attraverso il cielo terso, velato all'orizzonte da pallide foschie azzurrine che virano al nero dello zenit. La vetta sembra attirare le nubi, che risalgono rapide e lievi scavalcando impalpabili le creste e gl'impervi versanti della montagna. Otto ore di salita e 1100 metri di dislivello ci separano dall'ultimo campo, il Berlin, alto 5860 metri. Oggi la giornata appare più calda della precedente perché il vento soffia con minore intensità. Stimiamo quindici gradi sotto zero, con vento debole. Lontano, in direzione nord, spicca una cima appuntita dai fianchi glaciali: è il Cerro Mercedario, alto 6770 metri. A sud, alla stessa altezza, si alza la mole massiccia e nerastra del vulcano Tupungato. Davanti a me la sottile cresta del Guanaco, che unisce la cima dell'Aconcagua con l'anticima sessanta metri più in basso, si trasforma nell'affilata ed impressionante parete sud, uno scivolo di roccia e ghiaccio che si perde tra i ghiaioni duemila e cinquecento metri sotto, tra seracchi sospesi e pareti di roccia friabile e strapiombante. Mi rammarico di avere appena il tempo per identificare un paio di cime, tra la miriade che ci circondano, prima che la foschia ci avvolga in un abbraccio indistinto, precludendoci il panorama. Il nostro tempo è scaduto: è ora d'iniziare la discesa.

Plaza de Mulas

Nei due giorni di cammino necessari a coprire i ventisei chilometri che separano la strada statale 7 da Plaza de Mulas, campo base dell'Aconcagua, abbiamo risalito una larga valle che descrive un ampio arco attorno alla montagna. La valle Horcones si trasforma presto nella desolazione di Playa Ancha entro cui si insinua il vecchio sentiero, eroso a tratti dalle acque rosso sangue dei torrenti che scorrono solcando i fianchi geometricamente perfetti della valle: un profilo ad U scolpito dalla forza degli elementi nelle muraglie di mani minerali, tra pinnacoli affusolati, tormentati come antiche dita protese. Illuminati dal sole bruciante i fianchi rocciosi della valle ne riverberano i raggi in una fantasmagoria pirotecnica: un alternarsi di bande verdastre di ossidi di rame e chiazze rosse di ruggine sovrapposta ad argilla color terra di Siena. Sopra tutto, rifulge il candore dei nevai che ricoprono d'argento l'inchiostro delle rocce basaltiche. Il campo base emerge all'improvviso tra il caos primigenio di una morena, nascosto fino all'ultimo da enormi cumuli di massi polverosi inframmezzati a distese d'aguzzi penitentes di ghiaccio. Plaza de Mulas è un aggregato di tende multicolori, tasselli sparsi di un puzzle da ricomporre. Quelle di maggiori dimensioni ospitano gli alloggi dei guardiaparco e una piccola infermeria. Le tende più grandi, simili a botti tagliate in due longitudinalmente e appoggiate sul lato lungo, fungono da punti di ristoro e da ritrovo serale (in una c'è persino un obsoleto portatile, collegato via radio con Mendoza per assicurare un precario servizio di e-mail, statica atmosferica permettendo). Vi sono poi i tendoni delle agenzie che servono da mensa, cucina e abitazione per i professionisti che operano al campo: guide e portatori, cuochi e gauchos. C'è anche quella del nostro corrispondente, l'anziano ma sempre combattivo Sig. Fernando Grajales, un pioniere dell'epoca eroica dell'esplorazione di questa montagna all'inizio degli anni cinquanta. Il resto del campo si riduce ad un cluster di macchie colorate, sparse a caso sui fianchi della morena pietrosa che ricopre il fiume di ghiaccio sotterraneo che scende dalle pendici del Cerro Cuerno.
Una comunità internazionale di alcune centinaia di scalatori abita il campo in permanenza, rinnovandosi ogni giorno in un incessante andirivieni da e verso i campi alti e con coloro che si apprestano al ritorno a Puente del Inca. Una babele etnica il cui denominatore comune è l'assoluta diversità oltre che, ovviamente, l'aspirazione a raggiungere la cumbre. Tra tutte, mi ha colpito la spedizione croata, ebbra di un nazionalismo da poco conquistato, i cui membri andavano in giro strombazzando ai quattro venti la loro identità con canzoni e frasi patriottiche: l'incongruità era pari solo al ridicolo. L'espansività dei popoli di stirpe latina si mescola con la riservatezza anglosassone e quest'ultima con il mistero, l'alienità, degli scalatori orientali: giapponesi e coreani che avanzano solitari senza proferire parola, sovraccarichi di equipaggiamento come bestie da soma, ligi ad una filosofia di vita che fa del sacrificio una forma di autorealizzazione. Si osservano autentici sherpa nepalesi accanto a gruppi di messicani, neozelandesi ed europei: scalatori giunti da ogni angolo del globo. Pare di essere tra gli invitati all'ultimo convegno internazionale sull'Alpinismo in vista dell'Apocalisse di fine millennio.
Le statistiche dicono che solo uno su cinque tra coloro che si cimentano nella salita riescono a raggiungere la vetta. A giudicare dall'attrezzatura e dalla preparazione della varia umanità che s'incontra a Plaza de Mulas questa cifra pare essere persino esagerata per eccesso. Tanti, troppi sembrano essere qui solo per fare un tentativo, per provarci. Non tutti sembrano consapevoli del fatto che l'Aconcagua, già dalla via normale di salita, quella da noi seguita, è una montagna la cui ascensione sta sul confine tra dilettantismo esperto e professionismo tout court. Qui c'è un pegno da pagare per ogni errore di valutazione, equipaggiamento o preparazione, che può andare dal mal di testa all'edema polmonare, dai geloni alla morte per assideramento. In considerazione del grande numero di tentativi, nella stagione del verano non è raro imbattersi in un cadavere mentre viene trasportato verso valle dai muli. Da tempo si discute se introdurre o meno l'obbligo per tutti i salitori di sottoscrivere un'assicurazione che copra le spese di recupero in caso di chiamata dell'elicottero (che comunque non può operare al di sopra del campo base per motivi di sicurezza, causa i forti venti di valle).

Nido de Cóndores

Ovvero il Nido dei Condor. E' raro ormai riuscire ad avvistare condor o guanachi all'interno del Parco Provinciale dell'Aconcagua e non perché non ve ne siano. Piuttosto, hanno preferito allontanarsi dai sentieri più battuti, frequentati oggi da un numero sempre crescente di escursionisti e alpinisti. Nido è una piazza d'armi sassosa, sopra una sella battuta dal vento, alla quota di 5350 metri. La vetta incombe distante e massiccia, in un paesaggio di rocce e nevai dalle proporzioni colossali. C'è davvero da perdersi in quest'immensità, che non si riesce ad apprezzare appieno dal basso a causa dell'effetto di schiacciamento prospettico. A Nido de Cóndores abbiamo trascorso due notti, per acclimatarci. Il ricordo più profondo che ne serbo non deriva però dal paesaggio grandioso o dalle sensazioni di malessere provate, quanto piuttosto dall'osservazione di una magnifica stellata in una notte senza nubi, prima del sorgere della luna. Un cielo indimenticabile, sia per l'assenza di vicine fonti luminose, sia per la quota e la scarsa umidità presente nell'aria. Le stelle scintillavano nitide e l'occhio riusciva ad apprezzare i dettagli più minuti, le sottili nebulosità del cielo australe, la Grande e la Piccola Nube di Magellano, l'arco lattiginoso della Via Lattea sopra cui spiccava la Croce del Sud come in un perfetto planetario grande quanto il cielo.

Campo Berlin

Un nido d'aquila, difeso da un roccione strapiombante a quasi 6000 metri di quota. Tra i massi spuntano tre capanne di legno con lo spiovente a sezione triangolare, alte appena un paio di metri. Due di esse, Plantamura e Libertad, sono in rovina, con la porta sfondata e l'interno parzialmente ingombro di neve. La terza, la Berliner Hütte, è la costruzione più recente, risalendo al 1998. E' un dono fatto da alpinisti tedeschi alla memoria di un amico scomparso sull'Aconcagua, come si legge sulla targa metallica apposta sopra l'ingresso. In questo luogo gelido ma provvidenziale abbiamo bivaccato per tre notti, chiusi nei nostri sacchi di piumino, dormendo pochissimo e mangiando ancor meno. La capanna offre, rispetto alla tenda, un discreto riparo dal vento ma non protegge dal freddo, che di notte raggiunge quindici gradi sotto zero all'interno e meno venti all'esterno. Le attività quotidiane si riducono allo scioglimento della neve per reidratare i pasti liofilizzati e per riempire le borracce, ai collegamenti radio con il campo base, e alla verifica dell'equipaggiamento. Bisogna sforzarsi per uscire fuori e ammirare il tramonto o per espletare le funzioni fisiologiche. Il mal di testa compare ad ogni piccolo sforzo o movimento brusco e non resta che inghiottire aspirina®, la caramella degli alpinisti d'alta quota.

Independencia

E' una sella rocciosa posta poco prima del Gran Traverso, a 6430 metri di quota. I ruderi dell'omonimo bivacco segnalano il luogo. Ci sentiamo male al pensiero che mancano ancora 500 metri di dislivello alla vetta: i più impegnativi. Poco oltre il bivacco si supera una cresta, Portezuelo del Viento, che porta in pieno versante ovest. D'improvviso il vento d'alta quota proveniente dal Pacifico, non più schermato dalle pareti rocciose, ci investe con la forza di una bastonata e ci getta per terra, quasi a dirci quanto siamo insignificanti e fragili, e come occorra rendere omaggio alla montagna prostrandosi al suolo per poter avanzare.
Un lungo sentiero esposto sale obliquamente attraversando il Gran Acarreo, uno sterminato ghiaione che scende direttamente dalla cresta sommitale fino a Nido de Cóndores, formando un gigantesco piano inclinato. Attraversiamo un paio di nevai finché la traccia svanisce contro un pendio inclinato di 35°, cosparso da pietre instabili di ogni forma e dimensione: la famigerata "Canaleta", dove si procede come i gamberi. Per fortuna il lato destro è ghiacciato e i ramponi riescono a far presa, risparmiandoci la più faticosa avanzata sui sassi instabili. Così, un passo dopo l'altro, riusciamo a guadagnare la Cresta del Guanaco, a metà strada tra cima e anticima alla quota di 6900 metri. Da questo punto alla vetta sono necessari altri trenta minuti di fatica, dovuta, più che alla salita, all'aria rarefatta. Il nome della cresta deriva dal ritrovamento negli anni cinquanta dei resti di un guanaco, parente stretto dei lama. Considerata l'estrema improbabilità che un guanaco sia salito, sua sponte, sino a questa quota (oltre i quattromila metri non si osserva alcun tipo di vegetazione sugli aridi fianchi dell'Aconcagua), non resta che concludere che alcuni sacerdoti fossero soliti salire la montagna per compiere sacrifici. L'Aconcagua si trova all'estremo sud dei confini dell'impero inca, ma i popoli andini condividevano molte usanze e non è impossibile che i sacerdoti Mapuche (una delle cento culture assoggettate dagli inca nel loro impero multietnico) fossero dediti a rituali sacrificali sulle cime più alte, come recentemente scoperto dagli archeologi per gli abitatori delle Ande settentrionali: sacrifici umani inca in cima al Cerro Llullaillaco, a 6739 metri d'altezza. Certo è che in Quechua, lingua franca dell'impero ancor oggi parlata in forma dialettale dagli indios peruviani, l'Aconcagua era conosciuto, noto come Anco (cioè bianco) Cahuac, vale a dire sentinella. Bardati con un equipaggiamento ultramoderno, fatto di scafi in plastica, giacche di piumino e maglie di pile, persino noi abbiamo rischiato dei congelamenti: la possibile ascensione con secoli d'anticipo sul primo salitore, Mathias Zurbriggen, 103 anni fa, impone un tributo di stupita meraviglia a questi precursori dell'andinismo che si spingevano sulle più alte montagne del Sud America almeno tre secoli prima dell'invenzione dell'alpinismo ad opera di Paccard e Balmat sul Monte Bianco.

Ancocahuac

L'Aconcagua è una delle grandi montagne del mondo, e non solo perché attrae scalatori da ogni parte del globo, ma anche per la presenza di itinerari di salita di tutto rispetto, alcuni di difficoltà estrema, come la variante alla diretta della parete sud, aperta negli anni settanta dal giovane e spericolato R. Messner. Per contro, la via normale delude più di uno scalatore. Non si attraversa nessun ghiacciaio né occorre affrontare pareti strapiombanti. Dal punto di vista tecnico, la salita della via normale è una delle meno attraenti al mondo. L'ascensione è stata paragonata a quella di un mucchio di rifiuti intollerabilmente monotono, alla montagna del pattume del Sud America. Ma questi giudizi, fatti per lo più da alpinisti sconfitti e sfiniti, nascondono il fatto che la vera sfida costituita dalla salita lungo la via normale è data dalla grande altezza, dall'aria sottile, dal freddo intenso, e dalle tempeste improvvise e violente che possono trasformare l'ascensione in una crudele ordalia. Nondimeno, mi rendo solo ora pienamente conto di aver provato più emozione a visitare la casa di Pablo Neruda ad Isla Negra che durante i momenti trascorsi sulla vetta, svuotato da ogni emozione e aspirazione, quasi che le fatiche, i disagi e le privazioni affrontate fossero solo elementi transitori, tutto sommato di scarsa rilevanza, destinati ad essere presto cancellati dalla memoria. Mi restano maggiormente impresse le parole concepite anni fa dalla mente di un uomo, destinate a durare più del travaglio di un singolo nella loro fragile inutilità, che le emozioni provate in vetta nei fugaci istanti del successo. Se andar per montagne è certamente un buon modo per conoscere il mondo, c'è sicuramente al mondo molto di più che salire montagne.

31 Dicembre 1999

Bibliografia

  1. Alejandro Randis e Maria Marta Lavoisier - Aconcagua: El centinela de piedra (1991). Randis-Lavoisier C.C. 319, 5500 Mendoza, Argentina.
  2. Thomas E. Taplin - Aconcagua - The Stone Sentinel; Perspectives of an Expedition (1992). Ely Publishers, P.O. Box 5245, Santa Monica CA 90409.
  3. R.J. Secor- Aconcagua: a climbing guide (1994). Pubblicato da "The Mountaineers, 1001 SW Klickitat Way, Suite 201 - Seattle - Washington 98134.
    U.S.$ 16,95 .