Nepal

La Dea del Turchese

Diario minimo dell'ascensione al Cho Oyu, 8201 m

Il Cho Oyu con la nube lenticolare

 

Testo e foto di Giuseppe Pompili

A Guido, 1961-2002

Ghiaccio, tutto intorno, e distanti picchi innevati, a perdita d’occhio. Un mare di cime lontane traccia la

L'Himalaya con lo Shixa Pagma (8013 m) sullo sfondo visto dalla vetta del Cho Oyu

L'Himalaya con lo Shixa Pagma (8013 m)

sullo sfondo visto dalla vetta del Cho Oyu

curvatura terrestre. Sopra all’orizzonte il cielo, un cielo turchese permeato dall’aria gelida di un pomeriggio appena iniziato, benedetto da una brezza leggera che soffia da ovest.

Giuseppe Pompili in vetta in autoscatto
Giuseppe Pompili in vetta in autoscatto

Potrebbe essere la perfezione, un mondo che esiste senza bisogno d’altro, che trova in sé il suo fine e la sua giustificazione, una bellezza solitaria espressione d’elementi semplici, primordiali. Ma a rompere la simmetrica sobrietà del paesaggio ecco un punto, una macchiolina immobile sulla sommità di un’enorme cupola dai fianchi strapiombanti: neobruno cresciuto durante la notte al centro dell’immacolato mantello di ghiaccio che ricopre e sigilla la sommità arrotondata della montagna.E’ un uomo, in piedi sul ghiaccio, un’inezia, a vederlo, fragile involucro infagottato sotto strati di piumino d’oca.Ha piantato la piccozza al suolo, togliendosi i sopraguanti imbottiti e il passamontagna. Non c’è altro da salire.

La vetta, 8201 m
La vetta, 8201 m

L'Everest, il Lhotse, il Nuptse, il Pumori, il Makalu visti dalla vetta del Cho Oyu

L'Everest, il Lhotse, il Nuptse, il Pumori,
il Makalu visti dalla vetta del Cho Oyu

La fatica più grande è terminata. Lì accanto, fissate a bombole d’ossigeno abbandonate, alcune bandiere di preghiera spargono al vento inesauribili benedizioni. A est, così nitida che pare basti allungare una mano per poterla toccare, si staglia nell’aria sottile l’imponente mole scura dell’Everest. Sono le 13:20 (ora di Pechino) del 2 ottobre 2002 e mi trovo sulla vetta del Cho Oyu, a 8201 m d’altezza.

Tingri

Nelle belle giornate di settembre, quando le correnti da nord soffiano via le bianche coltri monsoniche che avvolgono le cime dell’Olimpo himalayano, i cieli si colorano di un limpido azzurro aprendosi da un orizzonte all’altro. I crudi contrasti dell’altipiano tibetano si attenuano, ingentilendosi alla morbida luce del

Al ritorno dal lavoro, l'Everest sullo sfondo
Al ritorno dal lavoro, l'Everest sullo sfondo

meriggio. E’ il tempo del raccolto. I contadini escono nei campi e mietono l’orzo dorato, intonando canti all’ombra dei bianchi giganti le cui cime fanno capolino in lontananza. Per le superstiziose popolazioni del Tibet, la cui sopravvivenza è da sempre legata all’esito del raccolto, l’apparizione dei colossi lontani costituisce il segnale dell’imminente cambio di stagione. Sopra tutti, il Chomolungma, Dea Madre della Terra, (l’Everest) e il Chowowuyag, Maestro degli Onorati Maestri, (il Cho Oyu), noti in Nepal come Sagarmatha (il Luogo più Alto sull’Oceano) e Cho Oyu (la Dea del Turchese). Il loro mostrarsi benevolo al termine dell’estate, scandisce il tempo della mietitura e l’approssimarsi dell’inverno. Alla confortevole distanza di sessanta chilometri, ammirate dal villaggio tibetano di Tingri, le due divinità sembrano sorvegliare con benignità le attività umane. Ma al campo base la prospettiva cambia radicalmente, perché lì le montagne incombono come bianchi animali pazienti, nell’attesa del rinnovo stagionale del rito dell’ascensione da parte di un piccolo esercito d’alpinisti.

 Il Tibet che cambia

Abbiamo camminato sulle strade polverose, oltre le case dai tetti ricoperti di sterpi e sterco messi a seccare per l’inverno. Abbiamo visto i mucchi di sabbia e cemento che si trasformano giorno dopo giorno, un anno dopo l’altro, in nuove costruzioni incatenate a fazzoletti di terreno addossati alla via maestra. Polvere e nuovi palazzi del potere, gente seduta alle finestre, volti rugosi, bruciati dal sole, scuri come cuoio vecchio, mischiati a facce lisce e bianche, riparate da cappellini colorati su eleganti giacche grigie: i nuovi coloni cinesi, commercianti che hanno venduto la casa o il negozietto in qualche provincia

Le due dee, Everest e Cho Oyu da Tingri
Le due dee, Everest e Cho Oyu da Tingri

sperduta dell’impero per arrivare fin qui, nella terra del sole, un sole che brucia e non scalda, con appena quanto basta per iniziare da capo una nuova attività. Gente umile, lavoratrice e caparbia. Gente che ha divelto le proprie radici, abbandonando un precario benessere in cambio di un posto al sole in Xizang, come loro chiamano il Tibet. Nascoste dietro la via principale abbiamo trovato le case degli altri, i tibetani, quelli veri, quelli che non possono permettersi né gli occhiali da sole né una giacca da quattro soldi, che sono al lavoro nei campi durante il giorno, presi a bastonate dai nuovi padroni per un piccolo furto ai danni di noi occidentali, responsabili di aver sventolato loro sotto il naso con suprema impudenza i simboli materiali della nostra opulenza.

ABC

L’abc, acronimo di advanced base camp, o campo base avanzato del Cho Oyu è un luogo inospitale, aggrappato ad una morena pietrosa, dove il nero dei corvi che rovistano tra i rifiuti vela la montagna di tristezza. E’ il campo base più alto di tutti, situato alla quota di 5720 m sul lato destro del ghiacciaio che scende dal Nangpa La, il passo che segna il confine col Nepal. Non appena il sole scende dietro alle cime circostanti, la temperatura al campo precipita a cinque sottozero. Lo sforzo d’infilarsi (completamente vestiti e con il berretto in testa) all’interno del sacco piuma è sufficiente a causare, nei primi tempi, il fiatone. Poi, con il trascorrere dei giorni e delle settimane, ci si abitua a vivere persino in questo luogo simile allo scomparto del ghiaccio del frigorifero domestico, e si giunge ad apprezzarne alcuni piccoli agi, come la presenza di sgabelli e di un tavolo per pranzare oltre all’acqua calda per lavarsi al mattino. Le ben più rigide condizioni dei campi alti finiscono per far rimpiangere la brina che si stacca dalle pareti interne della tenda al sorger del sole, quasi nevicasse, oppure il repellente abbraccio

Il campo base avanzato, a.b.c.
Il campo base avanzato, a.b.c.

gelato degli abiti al mattino, lo spalare la neve caduta abbondante nel corso della notte, il gesto di spezzare la crosta di ghiaccio formatosi nel caffè dimenticato dentro la tazza, le pietre, i sassi, la polvere, lo sterco di yak, lo sterco umano, i rifiuti, i topi, i cumuli di bottiglie di birra vuote, altro sterco di yak, i chorten di sassi, le lunghissime file di bandiera di preghiera colorate, la bandiera rossa cinese, le tende di lusso, le tende autocostruite, i teli di plastica dei pastori di yak tibetani, le nevicate notturne, quelle diurne, le spedizioni indipendenti, Nadia di Losanna, Martha di Merano, le spedizioni commerciali, i cinesi che seminano bombole d’ossigeno, Mountain Madness, le quattro spedizioni della Focus, i loro bidoni blu sponsorizzati Enervit, radio BBC World, le antenne satellitari, le carovane di yak che valicano il Nangpa La, i militari cinesi che le inseguono a caccia di ladri d’armi, la pasta condita col ketchup, la pizza al tonno, la zuppa dello sherpa, il compagno di tenda che russa, il sibilare del vento, il silenzio, la nebbia, le vertiginose pareti circostanti, i ghiacci eterni, il sole al tramonto che incendia le vette, la luna piena che buca l’inchiostro della notte, la Dea del Turchese che pare irraggiungibile, l’attesa, la noia, la noia, la noia... 

Gershwin in onde corte

I giorni di maltempo al campo base scivolano via lenti ma sedimentano in fretta, confondendosi nel ricordo in un'unica, grande, attesa. Le nubi monsoniche giungono sulle ali del vento del sud attraverso il passo glaciale di Nangpa La, e si avvicendano le une alle altre e il loro passaggio è neve e gelo e lamento del vento. Al mattino, ci alzavamo quando non ne potevamo più di stare sdraiati, poi la colazione, le letture in tenda, qualche lavoretto di riparazione tanto per occupare il tempo, il rito scaramantico di informarsi sulle ultime previsioni del tempo presso i campi delle spedizioni “ricche”, poi il pranzo nell’attesa della sera. Dopo cena, qualche chiacchiera alla fioca luce delle lampade a gas serviva a ritardare il più possibile lo sgradevole momento di coricarsi. E poi c’era la radio, un modesto apparecchio a transistor, cordone ombelicale con il resto del mondo. Non è semplice captare qualcosa, quando ci si trova serrati da ogni lato tra montagne altissime, lontani da tutto. Per riuscirci, occorreva inclinare l’antenna in posizioni strane e potenziarne la portata mettendola in contatto con la paleria metallica della tenda. Doveva essere così, all’inizio del novecento, quando capannelli di persone si assiepavano intorno alla nuova invenzione, ascoltando in stupefatto silenzio i suoni emessi dalla scatola

Il gruppo al completo al campo base

magica, intuendo di trovarsi di fronte al futuro, un prodigio che avrebbe cambiato il mondo. E il miracolo si è ripetuto, questa volta per alleviare la monotonia di un piccolo gruppo di alpinisti, stretti gli uni agli altri per cercare di trattenere il tenue tepore pomeridiano. Dopo parecchi tentativi falliti, al gracchiare confuso della statica si sono sovrapposte le note di una melodia trasmessa dalla BBC World. L’abbiamo riconosciuta, inseguita e ascoltata in silenzio, lottando per mantenere la gracile sintonia. Era la Rapsodia in Blu di George Gershwin i cui suoni giungevano a noi, altalenanti ma inconfondibili, riflessi da remote distanze per grazia di tenui correnti ionosferiche. La musica struggente del capolavoro di Gershwin danzava sincopata nell’aria sottile come uno stormo di uccelli impauriti, ora limpida e forte, ora distorta e impercettibile. Ha danzato con noi e per noi, sino alla fine.

Disastro!

I giorni grami, i cieli grigi senza mai un tocco di colore, un mare di nuvole e il vento che le spinge. I giorni dell’abbondanza… abbondanza di preoccupazioni, abbondanza di cibo. Il cuoco, uno Sherpa di nome Ngima, più il tempo peggiorava, più moltiplicava le portate, cercando d’infondere varietà alle pietanze impiegando, con indiscussa maestria, gli stessi ingredienti, ogni giorno sempre più insopportabili. E’ un brav’uomo, quel Ngima. E’ riuscito ad allungare la vita al quarto di capra appeso in cucina per un mese intero, servendoci regolarmente brodo e spezzatino, ossa e tutto. Luce grigia nel cielo, grigiore nello stomaco. « Vi piace la zuppa della sherpa? » Ma sicuro, e ce la preparava in abbondanza. « Vi piace la carne di capra? » Naturalmente, e i piatti sparivano sotto le porzioni generose. I denti lavoravano alacremente e il brodo scendeva a scaldare lo stomaco, gorgogliando e corrodendone le pareti. Che tristezza, laggiù, nel nostro stomaco. Vi si faceva un gran gemere e piccole nubi di gas salivano a pizzicare il cuore. La neve cadeva ogni giorno, accumulandosi intorno alle tende, soffiata dal vento. Così, alcune spedizioni hanno scelto di abbandonare, anche a causa dell’impossibilità di superare col maltempo la fascia rocciosa a 7700 m. Al campo 1 ho salutato Emilio Previtali, che era al Cho Oyu per un tentativo di discesa in snowboard. Da lui ho appreso che se ne sarebbe andato il giorno seguente, per via della stagione infame. In queste condizioni, quando il nostro compagno di spedizione, Jean Claude Latombe, professore di Harvard, si è visto costretto a rinunciare per il secondo anno consecutivo senza essere mai riuscito ad andare oltre il Campo 2, anche il nostro morale ha raggiunto il livello di guardia. Fausto, scoraggiato e non sentendosi bene, ha deciso di anticipare il rientro a Kathmandu, approfittando dell’uscita di scena dell’americano per abbandonare quella che sembrava essere una situazione senza speranza.

La dea si svela

“Quando gli dèi vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere”, scriveva Oscar Wilde. E la “nostra”, dopo una decina di giorni di capricci, si è mostrata infine in tutto il suo splendore, per la gioia e il tormento di chi aveva avuto la pazienza e la tenacia di saper aspettare. Dissolte le nubi monsoniche,

Bandiere di preghiera e bombole d'ossigeno in vetta al Cho Oyu

Bandiere di preghiera e

bombole in vetta al Cho Oyu

abbiamo approfittato dei pochi giorni di tregua prima del sopraggiungere del jet stream che, con il suo potente soffio da nord, preannuncia l’arrivo dell’inverno. Siamo saliti in due gruppi da due, con un intervallo di un giorno gli uni dagli altri per approfittare dell’unica tenda che avevamo a disposizione ai campi due e tre, senza ossigeno né l’aiuto di sherpa d’alta quota, come ci eravamo ripromessi. Siamo arrivati tutti e quattro in vetta, anche se ciascuno con il suo passo, circostanza che ci ha visti giungere uno per volta, distanziati. Salire accanto ad alpinisti dotati di respiratori ha significato, per me, una soddisfazione ben maggiore che giungere fisicamente in cima. Durante i sei giorni di tempo buono sono riuscite a salire una cinquantina di persone, in pratica tutte quelle che ne erano in grado, tra le oltre centocinquanta presenti al campo base, di cui una buona metà facendo uso (e abuso) di portatori e ossigeno. Le cose vanno così, oggigiorno, nel gran circo degli ottomila.

Ringraziamenti

Per finire, desidero ringraziare tutti quelli che hanno contribuito, a vario titolo, alla realizzazione della prima spedizione di Avventure nel Mondo ad un 8000 himalayano. In particolare il CAI Sezione di Bologna, Avventure nel Mondo, la Sherpa Alpine Trekking per averci fornito Ngima Sherpa, il miglior cuoco di entrambi i versanti dell’Himalaya, e infine, ma non ultimi, i miei compagni di salita, Adriano, Fausto, Giorgio e Piercarlo che hanno reso possibile, tutti insieme, il successo della spedizione. Grazie di cuore e arrivederci a presto sulle montagne del mondo.

Ottobre 2002

Bibliografia

  1. Andy Fanshawe, Stephen Venables - Himalaya in stile alpino - Gli itinerari più affascinanti sulle cime più alte - Copyright 1995, 1ª Edizione Italiana ottobre 1996, Vallardi Editori pp.192, £ 45.000
  2. Richard Sale & John Cleare - On the top of the world - Climbing the world's 14 highest mountains - HarperCollins Publishers, 1ª Edizione Inglese 2000. pp.228 16, 5 $
  3. Nina Rao - Himalayan Desert, Tibet Ladakh, Lahul, Spiti, Mustang - Roli Books Pvt. Ltd. New Delhi. 1ª Edizione Inglese '99. pp.96 500 Rupie.