Everest

Cresta nord-est

Ancora un'avventura

L'Everest dal campo base cinese

 

Testo e foto di Giuseppe Pompili

Cielo sbiancato dal sole. Rocce e ghiaia grigia. Ghiaccio. Luce. Vento da est. Intorno a me, senza un lamento, è morta ogni nube e squilla accecante l’aria limpida di una giornata resuscitata dal nulla. Gioie e delusioni, speranze e paure, sono macinate insieme in finissima polvere nel mortaio dell’anima nel momento in cui raggiungo la vetta. Sono brevi istanti, pervasi da una felicità inesprimibile ed effimera, perché la Dea madre della Terra non regala mai nulla e ogni errore o disattenzione può costar caro, soprattutto in discesa. Quattro amici, pochi mezzi e il collante della determinazione e della passione per la montagna, ci hanno permesso di realizzare quel desiderio che per molti è destinato a restare un sogno: la salita dell’Everest lungo la cresta nord-est. Spesso, l’unico modo di far bene le cose è farsele da soli: così è nata l’idea di una spedizione leggera e auto finanziata alla cresta nord-est, versante tibetano, coinvolgendo altri tre amici, Adriano Dal Cin di Susegana (TV) e i triestini Alessandra Canestri e Marco Tossutti, tutti alpinisti dilettanti, come me, ma non per questo inesperti o impreparati.

Per il grande pubblico, quello da confondere con notizie sensazionali per placare gli sponsor, l’Everest è semplicemente una montagna difficile da scalare, e poco trapela sui dettagli, che sono lasciati volutamente nell’ombra per alimentare sempre nuovi affari. Ma ci sono tanti Everest, ciascuno diverso dagli altri, almeno quanti sono gli alpinisti che salgono. Si può tentare da una via piuttosto che da un’altra, con o senza portatori, con o senza ossigeno, senza usare le corde fisse o appoggiandosi a una spedizione commerciale/nazionale, con mezzi tecnico-logistici praticamente illimitati. In molti sono disposti a pagare parecchie decine di migliaia di euro per tentare la salita con ogni ausilio possibile. Adriano ed io ce la siamo cavati con settemila euro a testa, voli inclusi. L’aspetto economico è solo la naturale conseguenza di un nostro modo di vivere la montagna che ha sempre privilegiato i bivacchi ai rifugi, l’autosufficienza agli agi. In realtà, benché fossimo insieme, eravamo due mini-spedizioni in una.

Marco, Sandra e Dowa
Marco, Sandra e Dowa

Sandra e Marco (la prima italiana a salire la montagna dal Tibet, salvo gli ultimi 30 m, come lei stessa tiene a precisare) hanno scelto di farsi assistere nella salita da uno sherpa, mentre Adriano e io abbiamo fatto tutto da soli, montando i nostri campi, dal campo base avanzato (a.b.c.) a 6400 m fino ai tre campi alti necessari a raggiungere la vetta. Probabilmente gli unici, sugli oltre 150 alpinisti che questa primavera hanno tentato la salita dal versante nord. La stanchezza accumulata nei sei viaggi preliminari di andata e ritorno tra l’a.b.c. e il colle nord a 7066 m, senza contare gli ulteriori passaggi da quest’ultimo ai campi due e tre, ci ha consigliato di portarci due bombole d’ossigeno a testa. Ne ho utilizzata una per salire al di sopra degli 8300 m e mi resta il rimpianto di aver avuto paura di non farcela senza, l’unico modo onesto, a mio avviso, di procedere. Se il sogno di una salita completamente senza ossigeno non è stato raggiunto, c’è tuttavia la soddisfazione di non aver lasciato tracce sulla montagna, di aver portato in alto e disceso con le nostre forze tutto il materiale necessario, dalle tende, alle bombole, agli escrementi. L’attrazione, il fascino che esercita l’Everest, ha fatto sì che molti alpinisti, ancor oggi, pur di salire, non si facciano scrupolo ad abbandonare oltre la fatale soglia degli 8000 m, ogni sorta d’oggetti: scatolame, tende rotte, bombole d’ossigeno vuote, vecchie corde. Purtroppo, i frutti dell’aumentata attenzione all’impatto ambientale sono visibili in termini di pulizia dei campi e di recupero dei materiali, solo al di sotto di quota 8000. Ma anche questo sta cambiando.

L'avvicinamento ai campi base

All’inizio di aprile, quando i colori dell’altopiano tibetano virano tra l’ocra delle pianure aride e il bianco delle nevi invernali che ancora indugiano sui rilievi, abbiamo attraversato la frontiera di Kodari-Zhangmu, provenienti dal Nepal, per giungere a Tingri. Qualche giorno per ambientarci alla quota, dormendo per l’ultima volta sotto la parvenza di un tetto, e poi una gimkana di tre ore su di una pista che si snoda tra alti valichi e valli polverose ci ha portato a Rongbuk. Qui, a 5015 m, incassato in un’ampia forra, sorge l’omonimo monastero che la leggenda fa risalire a Milarepa, il santo che nove secoli fa ha introdotto il buddismo nella regione. La pista termina otto chilometri più avanti, al limitare del ghiacciaio di Rongbuk, accovacciato come un cane da guardia ai piedi della smisurata parete nord dell’Everest. Lì sorge il campo base cinese, spoglio e desolato, in cui durante la stagione primaverile si avvicendano decine di spedizioni, trekking e gruppi eterogenei di visitatori che si trattengono solo il tempo necessario alla foto ricordo. Le uniche costruzioni in muratura sono un basso edificio grigio dove alloggia l’ufficiale di collegamento, due toilette di cemento e un chiosco postale. Tutto intorno sorgono le tende scure dei guardiani di yak e quelle coloratissime delle spedizioni. Abbiamo trascorso in questo luogo, alla quota di 5172 m, una decina di giorni per compiere alcune escursioni di acclimatazione sui rilievi circostanti, alti più di seimila metri. Una spruzzatina di neve quotidiana era la norma, perché il meteo in aprile tende ad essere ancora instabile. In primavera, l’escursione termica fa sì che non appena compare il sole, la neve si sciolga nel giro di poche ore e il giorno dopo il ciclo si ripete. Il disagio più grave è costituito dal vento gelido che soffia con violenza specialmente durante le ore pomeridiane e che ci ha più volte abbattuto la tenda mensa. Se questo luogo sembra non essere il posto ideale per campeggiare, è tuttavia relativamente confortevole, paragonato al campo base avanzato. L’a.b.c. si trova diciotto chilometri più avanti e mille e duecento metri più in alto. Gli yak sono l’unico mezzo per trasportare tende, bidoni e materiali lungo l’impervio sentiero tra il campo base cinese e l’a.b.c., dove la scarsa densità dell’aria impedisce persino agli elicotteri di volare. Il sentiero risale la morena centrale del ghiacciaio di Rongbuk est, ai cui lati sorgono ad intervalli quasi regolari enormi vele di ghiaccio, simili ai costoloni di un leviatano preistorico. Nonostante gli yak siano animali robusti, naturalmente adattati alle massime quote, non è raro trovarne le carcasse ai lati del sentiero, specialmente ad inizio stagione quando, indeboliti dalla rigida stagione invernale, possono cibarsi unicamente del fieno ingiallito e poco nutriente serbato loro dai pastori.

I tre campi alti

Le grosse spedizioni hanno mezzi per attrezzare in contemporanea due campi base, in maniera tale che gli alpinisti possono scegliere di volta in volta dove stare. Molti preferiscono svolgere la maggior parte dell’acclimatazione in basso, al campo cinese. La migliore vivibilità dovuta all’escursione termica contenuta, all’aria più ossigenata e agli agi offerti dalla vicinanza di una pista carrozzabile è però mitigata dalla lunga e defatigante marcia di diciotto chilometri richiesta per salire e scendere dall’a.b.c. Per questo motivo, noi abbiamo preferito il campo base avanzato come campo casa, trascorrendovi complessivamente un mese circa. L’attendamento dell’a.b.c. si sviluppa sulla morena laterale del circo glaciale delimitato dalla parete sud est del Changtse e dallo sperone nord ovest dell’Everest. E’ un luogo gelido e inospitale dove, per ricavare le piazzole delle tende, occorre spezzare il ghiaccio e rimuovere le pietre di un suolo tutt’altro che livellato. In un paio di giorni di lavoro abbiamo montato la tenda mensa, due tendine e un gabinetto “biologico” con tanto di bidone per la raccolta delle deiezioni. Così, mentre il nostro cuoco ammalato cercava di riprendersi al c.b. cinese milleduecento metri più in basso, noi ci siamo occupati dei lavori di scavo e di sistemazione del campo. A 6400 m, i lavori pesanti provocano il fiatone oltre a regalare spiacevoli emicranie. Nei primi giorni la nostra principale preoccupazione è stata far sì che il vento non portasse via la tenda mensa. Non passava momento che non fossimo indaffarati e legarla e ancorarla con corde e massi, tanto che alla fine assomigliava ad un salame. La nostra seconda

Il campo 1 al colle nord
Il campo 1 al colle nord

preoccupazione era di far sciogliere il ghiaccio per ricavare acqua da bere e per cucinare, almeno sinché il cuoco nepalese Ngima, una vecchia conoscenza, non si fosse ristabilito abbastanza per venirci in aiuto. Cucinare ad una pressione atmosferica che è solo i due quinti di quella a livello del mare non è semplice, e gli spaghetti si tramutano in una sorta blob colloso pur se commestibile. Dopo qualche tentativo siamo riusciti ad azzeccare i tempi di cottura della pasta nella pentola a pressione e Sandra ci ha persino preparato il baccalà alla vicentina, con il merluzzo perfettamente ammorbidito dai ripetuti cicli di gelo-disgelo. Terminato il periodo di assestamento, abbiamo raggiunto per la prima volta tutti insieme il colle nord, 7066 m, il 25 aprile, ovvero il luogo del campo uno, situato nel punto più basso della cresta che unisce il Changtse con la parete nord-ovest dell’Everest. L’avvicinamento avviene sulla morena pietrosa e poi su ghiaccio pianeggiante sino alla ripida seraccata sotto al colle nord, che si sale per un dislivello di 400 metri, alternando deviazioni a zig-zag per evitare i crepacci, a rampe quasi verticali. Lo sviluppo dall’a.b.c. è di tre km circa per un dislivello complessivo di 660 m, che dipende dalla quota del campo base avanzato. Questa prima parte della salita presenta scarsi pericoli, ma richiede ramponi, imbrago e l’uso dello jumar sui tratti ripidi. Giunti al colle, abbiamo trovato con nostra sorpresa una tendopoli vuota, con almeno cinquanta tende nuove di zecca allineate in file regolari a occupare i posti migliori del poco spazio disponibile. All’Everest come in tutte le grandi montagne, da sempre, i campi alti sono frutto del duro lavoro degli sherpa, portatori nepalesi d’alta quota assoldati per trasportare ogni genere di materiale, oltre che per montare le tende e cucinare, mentre i membri delle spedizioni si occupano perlopiù solo della propria salita. Umili e modesti, considerati alla stregua di utensili perché pagati, vivono in tende separate e raramente è dato il giusto rilievo al loro indispensabile contributo, soprattutto nelle spedizioni commerciali. Alcuni possiedono un curriculum da fare invidia ai migliori specialisti nostrani, e tuttavia restano dei perfetti sconosciuti anche in Nepal. Pochi sono disposti ad ammettere di dover loro tutto. C’è chi scrive che hanno trasformato le principali vie di alcuni 8000 in vie ferrate. Può darsi, ma a chiederglielo è una clientela disposta ad ogni compromesso pur di salire. A me e Adriano pareva di essere dei marziani, unici alpinisti occidentali in mezzo a tanti portatori sherpa, mentre scavavamo nella neve fresca del colle nord la piazzola per la nostra tenda. Per noi due questo è stato solo il primo dei sei viaggi complessivi tra l’a.b.c. e il colle nord. Questi viaggi ripetuti si sono resi necessari, oltre che per favorire l’acclimatazione, soprattutto per trasportare il materiale dei campi due e tre. E’ questo il cosiddetto stile da spedizione, in cui si montano i campi in successione, partendo dal campo base, dove si fa ritorno a riposare. Le tende si lasciano montate nei campi per l’intera durata della spedizione e si dicono fisse. Questo sistema è stato ideato per salire le grandi montagne himalayane, dove le quote e le distanze sono notevoli. Esiste poi lo stile alpino, che implica portare con sé con tutto il materiale necessario, sino alla vetta o alla rinuncia, smontando e rimontando via via ogni campo senza mai scendere. Inutile aggiungere che questo stile, sviluppato sulle Alpi e da cui prende il nome, è più difficile e faticoso sulle grandi montagne e resta appannaggio di un’elite di specialisti acclimatati e bene allenati.

 

La vista dal colle nord è impressionante, con la parte sommitale dell’Everest che ammicca duemila metri più in alto, una corona piramidale di rocce convergenti dalla parete nord. Per salire al campo due occorre partire all’alba dal colle, proseguendo lungo la cresta nord-ovest che si allarga sino a divenire un’ampia dorsale nevosa larga una trentina di metri con pendii che possono raggiungere i 30° nei punti più ripidi. Dopo un km e mezzo circa la cresta diventa rocciosa. Abbiamo trovato il percorso di salita verso il campo due interamente attrezzato con corde fisse, abbastanza inutili se non per sveltire la discesa. Anche se alcune spedizioni montano il campo al termine della parte nevosa della cresta, alla quota di 7550 m, la maggior parte preferisce salire di altri 200-300 m sulle roccette. A causa della ripidezza delle rocce e della scarsità di piazzole piane le tende del secondo campo non sono raggruppate in un unico luogo come per il campo uno, ma si trovano distribuite sull’ampio pendio roccioso della cresta a quote comprese tra 7550 m e 7850 m. Per me questa è stata la parte più faticosa della salita. Ho impiegato otto ore per salire gli ottocento metri di dislivello che separano il C1 dal C2. Questo tragitto è stato percorso da noi tre volte in tutto. Il dilatarsi dei tempi di salita con la quota non è conseguenza delle difficoltà, ma della scarsità di ossigeno che rallenta ogni operazione in prossimità della fatidica soglia degli ottomila metri. Oltre il campo due ho constatato come molti alpinisti facciano già uso di ossigeno. Se la circostanza agevola la salita, richiede d’altra parte un esercito di portatori per far arrivare in alto tutte le bombole necessarie, tanto che non è raro trovarne delle intere cataste. A queste quote relativamente basse, per fortuna, sono interamente recuperate dagli sherpa al termine della stagione, considerando il valore commerciale che hanno le bombole vuote.

Dal campo due la vista spazia in lontananza oltre il Changtse, arrivando sino al Cho Oyu. Dall’alto, il campo uno pare una macchia colorata sul ghiaccio, mentre l’a.b.c. si distingue a stento contro le rocce scure della morena. Proseguendo la salita si abbandona il filo di cresta, portandosi verso la parete nord.

Tende al campo 3
Tende al campo 3

Si arrampica tenendosi verso destra, su pendii ghiaiosi e terrazze a gradoni con un’inclinazione media intorno ai 30°. Alla quota di 8250 m circa, cinquecento metri sopra e quattro ore dal campo due, si monta l’ultimo campo, il tre, dove Adriano ed io siamo giunti il 18 maggio, preceduti il giorno prima da Sandra e Marco con il loro sherpa. Il campo tre sorge in pieno pendio, una manciata di tende esposte agli elementi, trecento metri più in alto del celebre colle sud dell’Everest, definito nel best seller “Aria sottile”, tra i luoghi più inospitali e gelidi della terra. Evidentemente Krakauer non ha mai avuto modo di sperimentare un soggiorno al campo tre sulla cresta nord-est. Qui abbiamo passato quasi due giorni (Adriano addirittura tre), senza usare ossigeno perché avevamo con noi solo le due bombole per la vetta. A questo punto occorre spiegare perché sull’Everest, a differenza di quasi tutte le altre montagne, moltissimi alpinisti facciano ricorso all’ossigeno, da alcuni giustamente paragonato al doping. Tutto è conseguenza del limite fisiologico dei processi di acclimatazione che, per un capriccio del caso, fanno sì che la massima quota di sopravvivenza umana, senza compiere sforzi, si collochi intorno ai 9000 m. Più ci si avvicina a tale quota più le energie disponibili diminuiscono, tanto che alla fine restano solo quelle necessarie al metabolismo basale, cioè per restare in vita, senza aver più la forza di salire o di scendere. La vetta dell’Everest è talmente prossima a questo limite che per lungo tempo si è ritenuto impossibile compiere una salita interamente senza ossigeno. Il primo che ne ha dimostrato la fattibilità, aprendo un nuovo capitolo nella storia dell’alpinismo, è stato Reinhold Messner, con la sua storica ascensione del 1978 assieme a Peter Habeler. Da allora, pochi altri hanno ripetuto l’impresa, che riesce ad uno su dieci tra coloro che riescono a raggiungere la vetta. Sbagliare valutazione e fallire può avere conseguenze fatali, perché oltre l’ultimo campo sulla cresta nord-est i salvataggi sono molto difficili, come storicamente provato dalla fine di Mallory e Irvine poco oltre il campo tre nel 1924 e come abbiamo avuto modo di constatare noi stessi quest’anno con un gruppo di tre sfortunati alpinisti coreani che sono saliti in vetta lo stesso giorno di Marco e Sandra e che Adriano ho trovato assiderati sotto alla vetta due giorni dopo, nonostante i loro sherpa fossero risaliti per portar loro ossigeno supplementare. Un’ascensione interamente senza ossigeno richiede condizioni di tempo perfetto e temperature non troppo rigide, perché, a detta degli esperti, con trenta gradi sotto zero e in presenza di vento forte è impossibile per chiunque procedere senza respiratore. L’estrema ipossia favorisce inoltre i congelamenti alle estremità. Con tutto questo, il mio sogno era di tentare senza ossigeno, e a questo fine mi ero allenato, innalzando in particolare la soglia aerobica con allenamenti specifici. Al momento decisivo, la partenza di mezzanotte per la vetta, ho preferito non rischiare e indossare la maschera. Anche se ora rimpiango di averlo fatto, in quel momento si trattava di compiere, da solo, un balzo verso l’ignoto, forse troppo grande per me. Ho avuto paura e ho indossato l’erogatore. Forse è solo per questo che sono riuscito a salire, ma il dubbio e il rimpianto per non aver avuto il coraggio di rischiare mi rimarranno per sempre.

La vetta

Dopo il tramonto la temperatura al campo tre si abbassa di colpo ed è bene essere già al riparo della tenda, possibilmente con una bevanda calda in mano. Il sole scompare verso le 18, occultato dalle lontane cime dell’Himalaya e preceduto da un incendio di luce rossa che arde estinguendosi sulla bianca piramide sommitale venandola di morbide gradazioni rosa. Un brodo caldo con sciolta una fetta biscottata è stata la mia cena. Poi mi sono sdraiato, completamente vestito, protetto dalla tuta integrale di piumino che ti fa assomigliare all’omino di gomma della Michelin ed equivale ad indossare un sacco a pelo. Non sono certo di essermi addormentato, ma alle 23 il trillo della sveglia mi ha strappato da un sogno buio ed irrequieto, portandomi alla realtà. Aria fredda sul viso, poi una cioccolata calda e quindi fuori nella notte a infilarmi i ramponi alla luce della lampada frontale, circondato dalle sciabolate di luce degli altri dieci alpinisti che quella notte hanno tentato. Per ultimo, ho avvitato il regolatore alla bombola, la cui filettatura si era ghiacciata, e mi sono sincerato che il flusso di gas fluisse regolare. Adriano si è accorto subito che il suo congegno si era bloccato ed è tornato indietro cercando di farsi aiutare, purtroppo senza successo. Così, ha deciso di attendere l’alba per vedere il da farsi, mentre io proseguivo in coda al piccolo gruppo che intanto era già partito e che mi ha presto staccato. Grande è stata la mia sorpresa nel vedermi procedere relativamente a rilento pur sentendomi bene. Colto dal dubbio ho provato a ruotare la manopola di erogazione portandola da uno a due litri al minuto. Nessun effetto sull’indicatore. L’ago appariva bloccato. Chiudendo del tutto l’erogazione l’ago andava a zero, per qualsiasi altra regolazione della valvola l’ago si fermava in un certo punto e non si muoveva più. Facendo buon viso ho indossato la maschera e sono ripartito, ormai completamente solo. Presto il pendio si è raddrizzato e, dopo un paio d’ore e un ripido canalino nevoso mi sono ritrovato davanti ad una parete rocciosa verticale percorsa da varie corde fisse. Dopo aver cercato di individuare la corda meno deteriorata vi ho attaccato la mia maniglia jumar, tirandomi su a forza di braccia mentre le punte dei ramponi stridevano grattando la roccia: lo stile qui è un optional. E’ questo il primo dei cosiddetti tre “step” o scalini, della cresta nord, gendarmi rocciosi che interrompono il filo di cresta e che costituiscono le maggiori difficoltà tecniche della via. Superato il primo si continua a salire poco sotto il filo, sino a rimontarlo dove la pendenza si riduce e pare quasi di camminare in piano. Per circa quattrocento metri si procede sul filo ghiacciato orizzontale, spingendosi a volte sull’orlo dell’abisso del versante est, camminando su blocchi di ghiaccio aggrappati chi sa come alla cresta e pieni di fessure sotto cui vedevo solo il bitume della notte. Dopo aver superato un paio di salti rocciosi, tutti attrezzati con corde fisse alquanto degradate, verso l’alba sono giunto all’esotica “roccia a fungo”, 8600 m, posta in corrispondenza di uno slargo grande quanto una grossa tavola da pranzo, interamente ricoperto da una pila di bombole abbandonate, alcune blu molto vecchie e altre arancioni nuove. Davanti a me, nel grigiore indistinto che precede l’alba, ho visto il famoso traverso e, torreggiante in lontananza, poco più

In arrampicata sul 2° step, 8650 m
In arrampicata sul 2° step
8650 m

alto del mio punto d’osservazione, il “second step”. Con i sui quindici metri verticali e la scala cinese di alluminio alta quattro metri che termina sotto un piccolo tetto di roccia, è considerato il passaggio chiave della via. Per passare il tetto occorre abbandonare la scala e buttarsi a destra nel vuoto, appendendosi di peso a vecchie corde consunte. Sotto all’ostacolo ho ritrovato gli alpinisti che mi avevano preceduto durante la parte notturna della salita. Il gendarme di roccia si può passare solo uno alla volta e richiede circa mezz’ora a testa. Un paio di persone hanno rinunciato, due sherpa sono proseguiti per poi fermarsi poco oltre, mentre i primi della fila mi hanno staccato di nuovo, recuperando il vantaggio che avevano su di me mentre aspettavo il mio turno. Così è passata un’ora, durante la quale è sorto il sole obbligandomi ad indossare gli occhiali anti-UV. Un mare di nubi pressoché ininterrotto mi rivelava che, come previsto, il tempo stava per cambiare. Superato non senza fatica l’ostacolo, la cresta si allarga e torna ad essere quasi pianeggiante. Il suolo è coperto da uno strato di ghiaia, che reca tracce del passaggio di centinaia di persone negli anni.

La cresta nord est sopra il 2° step
La cresta nord est sopra il 2° step

Il sole alto, la quasi assenza di vento, la vetta che ammiccava scintillante di fronte a me, tutto contribuiva a creare un’atmosfera di tranquillità e sicurezza, benché solo apparente. Accanto al sentiero ho visto infatti, a breve distanza tra loro, tre corpi congelati cementati sino a divenire tutt’uno col suolo ghiacciato. Sono i resti di un alpinista indiano e di altre nazioni, ormai lì da molti anni, con le giacche a vento di nylon di vecchia fattura del tutto scolorite e il volto annerito dal sole nella parte esposta e bianco come marmo nella parte in ombra. Questa visione mi ha scosso dall’eccessiva sicurezza che mi stava prendendo, spingendomi a fare più in fretta possibile.

Giuseppe Pompili in vetta
Giuseppe Pompili in vetta

Superato il facile ostacolo rappresentato dal terzo step sono giunto sotto il nevaio sommitale, che si contorna a destra. Sopra di me, tre pentolini neri in movimento sul nevaio sommitale costituivano gli unici esseri animati del paesaggio. Credo si trattasse di Daniele Nardi e di Mayte Hernadez con la sua amica, le due ragazze spagnole che quel giorno mi precedevano e che ho poi incrociato mentre scendevano dalla vetta. Dopo il nevaio, si aggirano alcune roccette sulla destra per poi affrontare l’ultimo canale roccioso che porta su uno spiazzo

Panorama dalla cima
Panorama dalla cima

ghiacciato della cresta di fronte al seracco sommitale che si supera salendo a destra.Alle ore 9:30 ho raggiunto la vetta, da solo, e mi sono trattenuto per un’ora circa sinché mi hanno raggiunto altri tre alpinisti. Mi sono tolto il respiratore e ho constatato che l’unica bombola usata era piena ancora per poco meno della metà, mentre l’altra non l’avevo ancora toccata. Sono quindi salito usando tre quarti di bombola, che sembra poco, ma che in quel momento mi è sembrato pur sempre troppo.

Il ritorno

La salita è solo metà dell’opera, e questo è tanto più vero sull’Everest, dove si corre sempre sul filo, anche quando non sembra. Il tempo può cambiare in fretta e per non smentire questa tradizione mi sono ritrovato immerso nelle nubi mentre scendevo il secondo step in corda doppia. Nella nebbia basta poco per perdere l’orientamento e un paio di centimetri di neve non fanno che peggiorare la situazione. Per fortuna si trattava solo di uno strato sottile di nuvole pomeridiane, dissoltosi completamente verso sera. Il sole è tornato a filtrare in mezzo alle nubi, diradando la nebbia e aprendo la visibilità sul campo tre che ho raggiunto alle 14:30, trovandovi Adriano che mi ha manifestato l’intenzione di ritentare la notte stessa. Mi sono buttato in tenda e presto mi sono addormentato, senza neppure accorgermi della sua partenza, avvenuta intorno alle 23. Il tramonto, simile a quello del giorno precedente, non lasciava presagire mutamenti importanti. Invece, la mattina dopo alle nove circa, il cielo era coperto e nuvoloso, mentre erano già caduti alcuni centimetri di neve fresca. Con Marco e Sandra già al sicuro all’a.b.c. e Adriano ancora in alto, ho deciso di scendere al campo due e di attenderlo lì, perché trattenersi più di ventiquattrore a 8250 m dopo essere saliti in cima può esaurire le energie necessarie alla discesa. Così sono arrivato al campo due, mentre Adriano, dopo aver raggiunto la vetta, ritornava in condizioni meteo non buone al campo tre, che ha raggiunto alle 16, sette ore dopo che io avevo iniziato a scendere. Questa mancanza di comunicazione ha poi fatto scrivere con imperdonabile leggerezza ad un giornalista del Corriere della Sera al seguito della spedizione nazionale ipermedializzata Everest-K2, che Adriano fosse disperso (dare del disperso sull’Everest equivale a dichiarare il peggio). L’equivoco si è chiarito nel giro di un giorno, quando Adriano è sceso con i suoi mezzi, mentre lui come noi eravamo del tutto ignari delle notizie rimbalzate in Italia, e che abbiamo appreso solo molti giorni dopo, al ritorno a Kathmandu. Ai margini di questa disavventura mediatica tengo a sottolineare l’assoluta estraneità per quanto è successo, oltre alla cordialità e correttezza sempre mostrata nei nostri confronti, dei capi spedizione della Everest-K2.

Tutti al ritorno all'abc
Tutti al ritorno all'abc

Credo che la salita dell’Everest, per noi tutti, sia stata l’avventura della vita oltre che il coronamento di un sogno fatto di sacrifici, determinazione e forse di un pizzico di follia. Non voglio dare qui l’impressione che sia stato tutto facile. Al di là dell’avventura, che rimane essenzialmente un fatto singolare e personale, ci accompagna la consapevolezza che anche le vette delle più alte montagne possono essere accessibili ai comuni mortali, senza troppe fanfare, purché allenati, motivati, ben acclimatati e sempre accompagnati da Lei, la Fortuna Imperatrix Mundi.

Bibliografia

  1. Andy Fanshawe, Stephen Venables - Himalaya in stile alpino - Gli itinerari più affascinanti sulle cime più alte - Copyright 1995, 1ª Edizione Italiana ottobre 1996, Vallardi Editori pp.192, £ 45.000
  2. Richard Sale &John Cleare - On the top of the world - Climbing the world's 14 highest mountains - HarperCollins Publishers, 1ª Edizione Inglese 2000. pp.228 $ 16,5. Peter Gillmann Everest - Vallardi I.G. 1ª Edizione Inglese 1993. pp.210 € 30.
  3. Roberto Mantovani - Everest - La storia del gigante Himalayano - White Star S.r.l. Vercelli. 146 pp. € 32.
  4. Walt Unsworth - Everest - Mursia Editore 1991. Biblioteca della montagna n°7 696 pp. £ 80.000.
  5. Reinhold Messner - Everest - Istituto Geografico De agostini Novara 1979.255 pp. £ 20.000.

Links

  1. http://www.mounteverest.net
  2. http://www.everestnews.com/
  3. http://www.adventurestats.com/pages/tables.htm
  4. http://www.paesieimmagini.it