Nepal

Ama Dablam

ai tempi supplementari

“'Esperienza' è il nome che tutti danno ai propri errori”
Oscar Wilde

Ama_Dablam_da_Namche
Ama Dablam da Namche

Sopra il campo base, sopra l'invisibile isobara dei 6000 metri, sopra la tormenta, doveva fiammeggiare il tramonto, ma la tediosa cortina di nubi grigie appariva senza una breccia, senza il minimo indizio di colore che potesse far presagire l'imminente crepuscolo. Che posto sgradevole! Anche i tortuosi sentieri del Khumbu, mille metri più in basso, possono essere freddi e scivolosi per la neve e il fango, ma nelle pozzanghere si riflette il cobalto del cielo, accanto stormiscono le fronde e alla fine di maggio c'è nell’aria il profumo dei rododendri. Invece, dopo due settimane di campeggio nell’umida e spoglia conca pianeggiante ai piedi dell’Ama Dablam, in attesa dell’occasione propizia per salire la “Madre e la sua Collana”, mi ritrovo in tenda con i cinque sensi, tutti, senza eccezione, che congiurano nel procurarmi fastidi. L’ondata di freddo degli ultimi giorni mi fa venire la pelle d’oca all’interno del sacco a pelo troppo leggero; la vista è depressa dalla monotonia del paesaggio, cancellato dalle ultime abbondanti nevicate; il gusto assassinato dalle esalazioni del fornello a benzina che, chissà come, hanno finito con l’impregnare gli alimenti; l’olfatto gravato dal sentore acre degli indumenti troppo a lungo non cambiati e l’udito snervato dall’incessante raspare della bufera di neve contro il telo. A tutto questo si aggiunge la consapevolezza che i giorni rimasti scorrono sempre più rapidi, proprio quando la vetta sembrava essere ormai a portata di mano.

Ama Dablam da nord
Ama Dablam da nord

Già da parecchio tempo, con Adriano e Francesco, abbiamo montato il campo uno, mentre una tenda ci attende al campo tre. Da poco le ultime corde sono state fissate sui pendii sommitali della montagna. Tanto basta. Se saliamo veloci, saltando il campo due, e se dalla vetta ci precipitiamo al campo base in giornata, tre giorni e due notti sono sufficienti per andare e tornare. Resterebbe così ancora una giornata per smontare il campo, caricare gli yak e fiondarci a Lukla giusto in tempo per non perdere il volo per Kathmandu. Un appuntamento a cui non possiamo mancare. Pensieri brevi, sconnessi, disperati, si susseguono prima di addormentarmi, prima che la stanchezza abbia la meglio sulla tensione, sul freddo e sui brividi: «Smettesse almeno di nevicare…», «Mi sa tanto che con l’Ama Dablam abbiamo chiuso!».

All’alba del 21 ottobre, a tre giorni dal termine della spedizione, una perturbazione annunciata toglie ogni residua speranza. Nubi lenticolari stazionano sulle vette circostanti e un fronte compatto e scuro avanza rapido da ovest inghiottendo in una lattiginosa opalescenza l’azzurro del cielo. In poche ore l’orizzonte si chiude e inizia a nevicare. Dal satellite apprendo che sono previsti due giorni di maltempo più altri due di coda prima del ristabilirsi del bello. Maledetto ottobre!!! Quest’anno il monsone si è protratto in modo anomalo, scaricando tanta neve anche a settembre inoltrato, neve che ha provocato mortali valanghe sul vicino Pumori. Anche se la salita all’Ama Dablam avverrà prevalentemente in cresta, al riparo quindi da possibili slavine, valuto comunque troppo rischioso tentare l’ascensione ad ogni costo in condizioni meteo sfavorevoli. Nel 2001, in circostanze analoghe sul Gasherbrum II, restai bloccato dal cattivo tempo

La cresta sud ovest, via di salita
La cresta sud ovest,
via di salita

tempo per tre giorni consecutivi al campo tre a 7000 metri, un’esperienza che non vorrei costringere nessuno a dover ripetere. Non ci resta che passare gli ultimi giorni giocando a carte. Del resto già cinque spedizioni, sia commerciali che private, tra le oltre venti presenti al campo base dell’Ama Dablam in questo strano autunno del 2006 hanno rinunciato e fatto i bagagli, avendo esaurito la pazienza ancor prima che il tempo residuo senza che fosse stato possibile spingersi oltre il campo due. Per non abbandonare a nostra volta, occorrerebbero almeno due o tre belle giornate consecutive.

Dopo il maltempo, prima o poi, torna sempre il sereno. Aggrappato a questa lapalissiana ma aleatoria speranza, sfoggiando un ottimismo di facciata che non sono certo di condividere, propongo ai miei quattro compagni di posticipare il ritorno di tre giorni. Non uno di meno, ma neppure uno di più, considerando che qualcuno tra noi già rischia il posto di lavoro. Dopo tante spedizioni, questa è la prima in cui mi vedo costretto a modificare il piano voli in corso d’opera. Tutti sentiamo però di esserci guadagnata sul campo un’ultima chance, per la nostra volontà e determinazione. Avverto che l’operazione potrebbe non essere indolore, sia in considerazione degli eventuali costi sia, principalmente, riguardo alla difficoltà di spostare a una data decisa a tavolino i voli di tutti in un periodo di altissima stagione. Ricevuto l’assenso unanime per un estremo tentativo, accada quel che deve accadere, prendo a prestito un satellitare dal gentilissimo capo spedizione della Thamserku e mi attacco al telefono, chiamando prima la sede di Avventure a Roma e poi il nostro corrispondente a Kathmandu.

Campo intermedio
Campo intermedio

Immagino i mal di testa che sto procurando a più d’uno e agli accidenti che mi manderanno, ma ormai il dado è tratto. Adesso tocca a noi.

 

 

 

 

 

La Torre Gialla

Il mattino del 23 ottobre, il sole accecante illumina un paesaggio natalizio sotto il cielo terso e limpido come cristallo. Nei due giorni precedenti si sono accumulati trenta centimetri di neve fresca. Con Adriano

Cartolina 7 Summits
Salendo la torre gialla

e Francesco lascio il campo base motivato e fiducioso. Iris, in compagnia del suo sherpa Ngima e della guida Renato, ci raggiungerà al campo uno un paio d’ore più tardi. Il giorno seguente iniziamo a salire lungo la cresta sud ovest, il cui profilo irregolare alterna traversi esposti con gendarmi di roccia da superare e funghi di ghiaccio da aggirare. Francesco, Adriano e io procediamo spediti. Poco dopo ci ritroviamo in testa, vantaggio essenziale per evitare le attese ai colli di bottiglia, punti obbligati della via in cui è assai difficile superare chi ci precede e dove occorre attendere il proprio turno per poter passare. Il punto più critico si trova appena prima del campo due, alle base di un’aerea torre di granito, la torre gialla, alla quota di quasi 6000 metri. La liscia parete rocciosa alta una ventina di metri conduce a una sella e quindi ad alcune strette cenge a cui si aggrappano le tende del campo. La verticalità e l’esposizione, unitamente al peso degli zaini, ai ramponi e alla temperatura sottozero, rendono ardua la scalata in libera. Il ricorso alla corda fissa è per noi inevitabile. Non ho visto nessuno farne a meno, professionisti e recordman compresi. Penso al duro lavoro degli sherpa ingaggiati dalle varie spedizioni: sono loro che all’inizio di ogni stagione attrezzano la via. Senza il loro indispensabile e misconosciuto contributo, gli alpinisti in grado di salire l’Ama Dablam si conterebbero sulla punta delle dita di una mano.

La torre gialla
La torre gialla

Alla base della torre gialla trovo tre corde: la prima dura e ruvida, molto consumata, di un grigio topo che un tempo poteva essere stata bianca, una seconda di colore blu, usata per sollevare gli zaini e infine una corda relativamente nuova, bianca a righe blu, impiegata dagli alpinisti per salire con le maniglie jumar. Tutti, senza eccezioni, usano la corda a righe per affrontare lo strapiombo ma la relativa semplificazione della salita comporta un prezzo da pagare. Affidarsi di peso ad una corda sconosciuta equivale, nell’impossibilità di controllarne lo stato dal basso, a compiere un atto di fede, che, a mio modo di vedere, corrisponde sempre a mandare in pensione sicurezza e ragione. Non che chi sale abbia altra scelta: è la roulette russa delle fisse. Tre corde offrono una buona protezione: ma nel tratto finale ghiacciato della cresta gli sherpa hanno sistemato un’unica corda statica a treccia, di poco prezzo, senza guaina. Ha una resistenza all’usura assai inferiore alle corde rivestite o a quelle in kevlar, un vero lusso. Gli alpinisti la chiamano, spregiativamente, corda “coreana”. Comunque è sempre meglio di niente. Viene usata sia da chi sale che per scendere in doppia, causando ingorghi pericolosi. Uno sherpa sotto di me, gravato dal peso di uno zaino enorme, si dibatte appeso alle corde come una mosca nella ragnatela. Alla fine è costretto a liberarsi dello zaino e a lasciarlo appeso a metà parete, per poi recuperalo con l’aiuto di un collega. L’operazione richiede mezz’ora, durante la quale le nubi si alzano, avvolgendoci nella nebbia.

Cartolina 7 Summits
Il campo 2

La foschia pomeridiana ci ha accompagnato praticamente tutti i giorni. Assenti al mattino, nubi relativamente innocue risalgono dal fondovalle e ricoprono completamente le montagne ad iniziare dal primo pomeriggio, dove non di rado ci regalano una spruzzatina di neve, per poi dissolversi al tramonto. Avanzare nel grigiore non è il massimo del divertimento per cui l’unico rimedio è partire presto. Passo veloce accanto alle sparute tende del campo due, abbarbicate alle rocce, con la nebbia che si alza dietro di me, inseguendomi, quasi facessimo a gara. Più oltre la cresta si raddrizza, raggiungendo la verticalità con la torre grigia, un pilastro verticale che si affronta sulla destra con tre tiri di divertente arrampicata sino a quando la roccia si trasforma in una sottile crestina di neve a 70°. Un traverso porta ad un couloir da cui si riguadagna il filo di cresta che, da questo punto in poi, è totalmente ghiacciata. Poco dopo, supero un panciuto seracco appeso chissà come alla cresta, sulla cui piatta sommità trovano posto le tende del campo tre. Incombente, sulla verticale del campo, torreggia il Dablam, la “collana” da cui prende il nome la montagna. Il gigantesco grumo di ghiaccio pensile domina questo versante del monte, ed è visibile sin da Namche Bazar, alla distanza di quindici chilometri.

 

All'ombra del Dablam

Cartolina 7 Summits
L'ombra dell'Ama Dablam

Lasciamo il campo poco prima delle sette del mattino, quando è già chiaro. Partire prima sarebbe inutile, considerato il dislivello relativamente breve che dobbiamo ancora superare. Passo oltre il Dablam, aggirandolo sulla destra. Salendo, osservo il muro azzurro di ghiaccio strapiombante, alto quasi cento metri. E’ fessurato alla base, in più punti, là dove tocca la roccia. Meglio starne alla larga, per quanto possibile… Purtroppo, un paio di settimane dopo il nostro rientro in Italia, apprenderemo che una slavina, staccatasi con ogni probabilità da questo punto, ha travolto e spazzato via il campo tre. Non accadeva da anni, ma sei alpinisti sono dispersi. Ancora una volta trovo conferma del fatto che in montagna la velocità è un fattore di sicurezza: tanto meno si sta in certi luoghi, più ne guadagna la salute… Mentre salgo il pendio ancora in ombra avverto un freddo intenso alle mani e alle dita dei piedi, per il momento sopportabile.

Cartolina 7 Summits
La cresta oltre il c2

Mi consolo pensando che tra breve sarò al sole e la situazione migliorerà. E’ presto, ho davanti abbastanza tempo e me lo prendo attardandomi a fotografare le canne d’organo, rigole di neve compatta che disegnano bizzarri chiaroscuri sul ripidissimo pendio. Resto solo, ma poco prima delle dieci esco dal cono d’ombra e mi riunisco ai miei due compagni in vetta, i primi della giornata a raggiungere la piatta cima a 6812 metri. Sopra di noi, solo la volta turchina del cielo, senza una nuvola. “Ama”, la Madre, ha voluto ricompensare la nostra paziente attesa con un regalo: una luce abbagliante illumina a trecentosessanta gradi un tripudio di candide vette. Dal Cho Oyu al Pumori alla piramide nera dell’Everest che fa capolino oltre l’imponente bastionata del Lhotse. E poi il Baruntse, il Makalu e, piccolissimo giù in basso, nano tra i giganti, l’Island Peak. Più oltre, a sud, la frastagliata silhouette del massiccio del Kanchenjunga.

Cartolina 7 Summits
In vetta

Poi, come attratto da una calamita, sono costretto a girarmi e a scrutare verso nord. Laggiù, invisibile, oltre l’orizzonte seghettato della catena himalayana, sento irresistibile il suo richiamo. E’ il K2, meta della nostra prossima avventura. Due ore più tardi, mentre scendiamo in doppia, incontriamo Iris, Renato e Ngima che stanno per arrivare a loro volta in punta. Anche oggi abbiamo fatto l’en plein… tutti in cima…e mi chiedo quanto ancora potrà durare questa sfacciata fortuna. E’ ormai buio quando arrivo al campo base, carico come uno sherpa, dopo aver smontato con l’aiuto di Adriano e Francesco il campo tre e il campo uno. Siamo saliti e discesi con le nostre sole forze, impiegando le tende da noi stessi portate. Tre giorni supplementari e un pizzico di testardaggine ci hanno regalato il ricordo di una cima elegante e impegnativa, bella e splendente, che non si concede facilmente agli amanti di un giorno: semplicemente perfetta.

Cartolina 7 Summits
Panorama a 360° dalla vetta

 

Bibliografia

  1. Stan Armington, Trekking in the Nepal Himalaya - Australia - 4ª Edizione, pp. 200 con foto a colori. Guida in lingua inglese della LP.
  2. Andy Fanshawe, Stephen Venables - Himalaya in stile alpino - Gli itinerari più affascinanti sulle cime più alte - Copyright 1995, 1ª Edizione Italiana ottobre 1996, Vallardi Editori pp.192
  3. Chris Bonington et al., World Mountaineering - U.K. 1998 Octopus Publishing London - 300 pgg. con foto e ititnerari a colori.