Pakistan

K2 - Il ritorno infinito

Il mio secondo tentativo di salita alla "Grande Montagna"

Testo e foto di Giuseppe Pompili

Poche montagne possono essere frustranti come il K2, la “Grande Montagna” del Baltoro, la più alta del Karakorum, seconda al mondo solo all’Everest. Poche riescono a essere così pericolose e mortali, qualità strettamente legate a fascino e bellezza. Per il secondo anno consecutivo nessuno è riuscito a salire e ciò nonostante ci sono stati due incidenti fatali. Di fronte al K2 tanti sembrano smarrire il senso del proprio limite. Anche i migliori. Specialmente i migliori. Chi non ha mai conosciuto importanti sconfitte nell’alpinismo, è su questa montagna che scopre di essere fatto di carne e di sangue. Qui si è obbligati a fare i conti con le proprie scelte, con la propria fragilità, la propria fallibilità. In breve con la propria umanità. Cosa non facile, specie per i grandi collezionisti di vette. E’ una lezione di rinuncia, che si apprende nella maniera più dura. Capita che dopo alcuni tentativi, vale a dire stagioni infruttuose, pur di concludere il frustrante braccio di ferro con la montagna, si sia disposti ad accettare rischi crescenti. Ma alla fine del gioco, è sempre il K2 a vincere, comunque vada. La maggiore altezza richiede mediamente un giorno in più di salita rispetto agli ottomila più bassi, fatto che a propria volta aumenta il rischio di un peggioramento del tempo, magari proprio quando ci si trova già nel bel mezzo della cosiddetta “zona della morte”. Ne sa qualcosa Kurt Diemberger, sopravvissuto a una situazione estrema sulla spalla, a quasi ottomila metri. Ghiaccio vivo, caduta di pietre che come proiettili perforano le tende, vento che travolge tutto, costituiscono l’antipasto. Il piatto forte è dato dalla quota, dal freddo e dai tratti ripidi che non danno scampo a eventuali cadute. Conosciuta anche come “la montagna degli alpinisti”, il K2 ha fatto tornare indietro due volte un mostro sacro come Hans Kammerlander, che ha alla fine dovuto rinunciare al suo progetto di scendere dalla cima con gli sci. Questa stessa sfida, raccolta in seguito da altri sky-skiers, è ancora aperta. Nel frattempo, ha visto cadere i migliori sciatori estremi. Dopo un paio di tentavi falliti sono arrivato alla conclusione che, chi sale al primo colpo, è davvero stato baciato dalla fortuna. D’altra parte, questa è una montagna che uccide chi non sa fermarsi in tempo. Facile a dirsi, ma noi alpinisti siamo come falene attratte dalla fiamma, e il K2 brilla in modo irresistibile. Anche sui numeri bisogna intendersi: quando si parla di “affollamento” sul K2, ci si riferisce sempre a poche decine di alpinisti l’anno, perdipiù dotati di un curriculum ragguardevole. Per avere un termine di paragone, la scorsa primavera hanno salito l’Everest più di cinquecento persone (anche se solo una manciata lo hanno fatto senza ossigeno supplementare). E’ bene precisare che sul K2 non si sale semplicemente: si arrampica. In certi tratti con l’aiuto delle corde, peraltro indispensabili in discesa. Mentre sull'Everest sono strettamente indispensabili solo alcune decine di metri di corda fissa, sullo Sperone Abruzzi ce ne sono più di 2000 metri e sulla Cesen, la seconda via in termini di frequenza di salite, ce ne sono circa 500 m. E’ stato detto dai più grandi che la salita dell’Everest, a paragone di quella del K2, è una passeggiata. Oggi mi sembra di poter confermare questo giudizio, non tanto per sminuire la salita alla più alta montagna del mondo, quando per sottolineare il divario tecnico, di dislivello e di pericolosità che assume la salita anche lungo la cosiddetta "norrmale", lo Sperone degli Abruzzi. Questa estate, i miei due compagni di salita e io abbiamo conosciuto al campo base delle persone eccezionali. Fuori dal comune. Forti  e insieme modeste (qualità che non sempre vanno di pari passo). Ci siamo riconosciuti, ciascuno diverso ma accomunato dall’esserci, lì, al campo base, per un’idea comune di salita. Non ce l’abbiamo fatta. Alcuni, come noi, hanno rinunciato dopo il primo tentativo, viste le condizioni meteo e i danni subiti dalle attrezzature. Altri hanno insistito con un secondo tentativo, frustrato dalla stagione inclemente. Ogni anno la storia sembra ripetersi uguale, cambiano solo le statistiche di chi non torna indietro. Ci si potrebbe chiedere il perché, interrogarsi sul senso, ma sarebbe tempo perso: le risposte sono solo esercizi a posteriori, volte a giustificare le nostre scelte. Che poggiano il più delle volte su basi irrazionali, perché alla fin fine non siamo esseri logici ma macchine emozionali, se mi si passa l’ossimoro. Non racconterò quanto sia lungo arrivare al campo due con la via che mano a mano si verticalizza oppure del senso di isolamento e d'immensità nel ritrovarsi a salire le scure rocce ripide della piramide nera. Oppure del senso di sconforto che si prova vedendo la seraccata che in grandi ondate scende dalla spalla e maschera persino la vista della vetta, promessa perfida di quanto ancora manchi alla meta, celata alla vista 1300 metri più in alto. Nulla so del collo di bottiglia e del traverso, tranne che sono luoghi pericolosi e infidi, teatro di tragedie mortali, 300 m sotto la cima. E’ forse per questo, per vedere sin dove riuscirò ad arrivare, che ho deciso di ritentare per la terza volta, contro ogni logica, sfidando le temperature polari, il vento, le rocce ma, soprattutto, le mie paure.  

Agosto 2010

Bibliografia

  1. Andy Fanshawe – Himalaya in stile Alpino - Copyright 1996.
  2. Kurt Diemberger - Il Nodo infinito
  3. Reinhold Messner - Chogorì - La Grande Montagna

Links

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