Albania

Bunker, paraboliche, asinelli

Testo di Giuseppe Pompili

 

”Shqipëria” è il nome nell'antica lingua arbëreshe dell'Albania, la più piccola nazione dei Balcani, la cui storia affonda le radici in un lontano passato, quando gli Illiri si insediarono in questo territorio, per poi continuare con le colonie greche di Durrës e Apollonia fino alla conquista romana. Le antiche città di Butrinto e Apollonia accanto ad altri siti minori quali Byllis, Aulon e Panormus sono ancora oggi la principale testimonianza di un passato ricco d'arte e di storia. Nonostante la prossimità dell'Italia, il turismo di massa è ancora un fenomeno relativamente sconosciuto per l'Albania. Questo fatto, unitamente alla bellezza paesaggistica e del patrimonio culturale ne fanno una meta ideale per chi desidera andare alla scoperta di un paese tanto vicino quanto diverso, rimasto isolato dal mondo per oltre un quarantennio sotto il tallone di una tra le più spietate dittature che la storia ricordi, al cui confronto la Romania di Ceaucescu o la Russia sotto Stalin apparivano persino desiderabili. L'impronta della tirannide di Enver Hoxha, morto per cause naturali nel 1985, e del suo delfino Ramiz Alia, condannato nel giugno del 1994 a 10 anni di carcere, è ancora ben visibile sia nelle iscrizioni sui fianchi delle montagne, che celebrano il nome del "padre della patria", sia negli oltre seicentomila bunker sparsi sul territorio: grotteschi monumenti all'umana paranoia, trionfo effimero di quello che Kundera ha giustamente chiamato il Kitsch comunista.

 

Oggi chiunque sia disposto ad una vacanza un po' spartana, che non pretenda nè lussi nè cibi raffinati, può compiere con poca spesa un viaggio estremamente interessante. Certamente il paese è cambiato rispetto al 1989, anno dei primi visti rilasciati tramite l'associazione Italia-Albania, quando non esistevano praticamente automobili private o stabilimenti della Coca-Cola alle porte di Tirana (sul tipo di quello inaugurato nel giugno di quest'anno). Anche se i pastori portano sempre le greggi al pascolo tra gli oliveti, e la legge della bessa, il giuramento di vendetta che vale oltre la morte, vige ancora tra gli uomini del nord, mentre le donne vestite nel costume tradizionale scendono ancora dai lontani villaggi in paese nel giorno di mercato, ormai ovunque nelle città i grigi condomini residenziali di una povera edilizia popolare sono tappezzati sui lati rivolti verso l'equatore celeste da una costellazione di modernissime antenne paraboliche, del costo di 300 dollari l'una, elevatissimo per un paese il cui reddito annuale pro-capite è il più basso d'Europa. Questa sete di informazioni portate nelle case da una tecnologia d'avanguardia tradisce certo un'ansia di rivalsa per gli anni di forzato e completo isolamento, di clandestinità dell'informazione, ma anche l'unica proiezione possibile verso il mondo esterno, ora non più inaccessibile per decisione di partito ma ugualmente fuori portata per le barriere erette dal denaro, ben più impervie dei fucili di Hoxha.

 

La nostra guida si chiama Petraq (Pietro), ha trentacinque anni e fa l'elettricista di professione, autista nel tempo libero. Vivere del proprio stipendio è di fatto impossibile in un paese dove la sola spesa mensile per generi alimentari è pari ad un salario medio. Arrangiarsi, o avere un secondo lavoro è una necessità, confessano i coniugi Skrami, che ci hanno alloggiato a Tirana; entrambi ingegneri, il loro stipendio ammonta a 60 dollari per lei ed a 100 per lui, responsabile tecnico dell'ente elettrico di stato. Il prof. T. Osmani, nostro anfitrione a Scutari, autore di un libro sulla storia della lingua arbëreshe e di articoli per la Gazzetta di Scutari, culla il sogno irrealizzabile di una macchina da scrivere, per il cui acquisto dovrebbe accantonare per mesi la pensione di 25 dollari. La direttrice del museo di Durazzo (2 lauree, parla francese, inglese ed un po' di italiano) percepisce uno stipendio di 30 dollari mensili: durante il regime di Hoxha erano solo 6. Ha due figli entrambi studenti di discipline artistiche: il ragazzo ha visto tutti i suoi compagni e l'insegnante emigrare in Italia, alla ragazza era proibito ricevere i libri d'arte per i suoi studi che le spedivano dall'estero. Pietro è un privilegiato, essendo proprietario di un'Audi 80 diesel, di seconda mano ma ancora in buono stato. Per arrotondare accompagna in giro per il paese quei pochi turisti che si rivolgono a lui tramite un'agenzia: noi siamo per lui il secondo gruppo in assoluto. Possedere un'auto in Albania è ancora affare per pochi, se si considera che la benzina (quando non annacquata) costa sulle mille lire al litro, a fronte di un salario che si aggira sulle 100.000 lire al mese. Curiosamente, però, si constata che le strade si vanno popolando di automobili di grossa cilindrata, per lo più tedesche, Mercedes soprattutto, anche se di seconda mano: un bel salto rispetto agli asinelli ancora ampiamente usati nei lavori agricoli e come mezzo di trasporto in ambito rurale. Come molti albanesi Pietro parla un buon italiano, appreso, ci spiega, ascoltando clandestinamente la RAI negli anni in cui poteva costare l'arresto e la reclusione fino a otto anni in campi di lavoro; per un tentativo di evasione, poi, si poteva arrivare alla fucilazione. Avere a che fare con la giustizia metteva nei guai non soltanto l'intera famiglia, ma anche i parenti alla lontana che potevano venire infastiditi pur risiedendo da tutt'altra parte. A noi fa sorridere sapere che era proibito ascoltare le canzonette italiane, portare i capelli lunghi o indossare i pantaloni a zampa d'elefante, che venivano prontamente tagliati sopra il ginocchio a chi li indossava. Per lui, come per un'intera generazione di albanesi vissuti tra gli anni '70 ed '80 il sogno americano è stato incarnato dall'Italia. Quando era studente, ci racconta, fu accusato e sottoposto alla pubblica riprovazione di fronte alla classe per aver innocentemente affermato di fare il tifo per la Juventus. Il solo pronunciare il nome di una squadra di calcio straniera in quegli anni era causa di guai molto seri, sufficienti per essere arrestato, inquisito e condannato come "nemico del popolo". Dietro l'alibi del socialismo, con forti connotati nazionalistici, Enver Hoxha aveva creato un sistema inossidabile per mantenere il potere, vale a dire lager ed eliminazione fisica degli oppositori, superando in questo anche Stalin, il suo modello. L'isolazionismo, l'autarchia, la liquidazione degli avversari, il paternalismo uniti alla fobia di essere aggredito dell'estero erano per Hoxha sia il mezzo sia la giustificazione per la detenzione di un potere assoluto, aiutato in questo da una polizia segreta a struttura piramidale, la cui base era costituita da un numero impressionante di delatori, che arrivavano a costituire un'alta percentuale della popolazione. Reclutati tra gli operai, la gente comune, i parenti dei sospetti, le spie ricevevano in cambio poco più che essere lasciati a propria volta in pace. L'unica strategia per sopravvivere era il silenzio. Un odio incancellabile traspare dalle parole di Pietro quando ci racconta queste cose, e di come, non molti anni or sono, per poter acquistare il latte necessario alla figlioletta doveva alzarsi nel cuore della notte e sottoporsi a lunghe ore di fila. Altri raccontano che per l'acquisto della carne l'attesa cominciava dalla sera precedente: si accendeva un fuoco per scaldarsi nella notte ed al mattino arrivava il camion da Tirana. Tutto questo mentre le trasmissioni delle televisioni estere captate di nascosto, RAI in testa, seppellivano di fatto la vuota liturgia del socialismo in salsa albanese sotto una valanga di spot pubblicitari. Tutto sommato, all'implodere del regime nel 1991 per un collasso economico inarrestabile, gli scontri, i saccheggi e le violenze sono stati poca cosa a paragone delle tribolazioni e delle sofferenze di questo popolo per quasi mezzo secolo, al punto da far sembrare quasi miti le pene di alcuni anni di carcere inflitte nei giorni scorsi, dopo un regolare processo, ai successori, moglie inclusa, del "padre della patria". Su queste terribili vicende, quasi sconosciute e rimosse dall'occidente per lungo tempo, la regista albanese Liri Bejei, esule per anni a Parigi, ha appena finito di girare un film, produttore Costa Gavras, dal titolo "L'invasione dei Barbari". Il regista Gianni Amelio ha invece girato in Albania un film intitolato "Lamerica" che sarà in distribuzione nei prossimi mesi nei nostri cinema.

 

Sul posto le tracce materiali del rifiuto del passato regime come pure di una crisi economica che ha costretto alla fuga le giovani generazioni, si possono cogliere dovunque, anche in fatti minimi legati al quotidiano. A Gjrokastër, nel quartiere vecchio che si arrampica sulla collina, molte botteghe denunciano lo stato di abbandono in cui si trovano da quando i vecchi proprietari sono di nuovo subentrati, mandando a spasso chi ci lavorava. Le conseguenze sono visibili sbirciando attraverso le imposte sgangherate che non nascondono le rovine del saccheggio. A Qeparo alta, villaggio fantasma della costa meridionale del paese, appena arretrato su di un'altura che domina il golfo in posizione strategica per difendersi dagli attacchi dal mare, nella galleria dell'ex cinema pascolano un paio di vitelli che si affacciano svogliati nella platea spogliata delle file di sedili ed ingombra dei calcinacci del soffitto. A Berat sarebbe vano cercare il museo archeologico nella moschea. Gli oggetti rimasti, niente più che un campionario ospitato nel palazzo di Alì Pascià Tepelena, chiuso al pubblico ma custodito da una guardia disarmata, ci vengono mostrati soltanto per intercessione del direttore dei musei della città. Gentilmente si è offerto di guidarci nella visita. Dal deposito, situato in una comune stanza chiusa a chiave, ha tirato fuori quanto segue:

  1. Alcune ceramiche in apparenza greche;

  2. Un assortimento di vecchie spade di ferro assai arrugginite;

  3. Dei frammenti di antichi finimenti equestri bronzei;

  4. Infine una testa di marmo d'epoca romana con un tondino di ferro infisso nel collo per sorreggerla. Bello il collo e le orecchie, ma della faccia era rimasto poco.

 

Dopo che li abbiamo ammirati, i reperti sono stati prontamente riposti nella stanza, in attesa di qualche altro interessato o, forse, di un compratore. A Korçë, invece, si celebrano i riti ortodossi nel salone principale del museo. Il visitatore sprovveduto dovrà rassegnarsi ad accendere una candela votiva oppure ad ammirare la pregevole iconostasi alle spalle dell'officiante, qualche icona moderna appesa qua e là tra le vetrine vuote accostate ai muri e un frammento di antico architrave scolpito, domandandosi dove saranno finite le numerose testimonianze del periodo medioevale preannunciate dalla targa metallica del museo ancora infissa nel muro.

 

Attualmente (giugno 1994), il motivo che più dovrebbe indurre ad una visita in questo piccolo paese è la quasi totale mancanza di turismo di massa. L'assenza di strutture ricettive che possano garantire uno standard minimo di servizi, assieme ai timori di possibili furti, uniti alla povertà e all'arretratezza del paese agiscono ancora da efficaci barriere contro l'avanzata delle orde turistiche e la conseguente cementificazione delle coste. La principale risorsa turistica albanese è infatti il litorale ionico a sud di Vlorë (Valona), che si presenta fortunatamente ancora intatto. Le sassose spiagge sono per lo più deserte e disabitate: la miglior oasi per gli amanti della quiete e del bel mare. Qui non è raro trasalire al sonoro ragliare di un solitario asino a pochi metri e imbattersi verso sera in greggi di capre che rincasano senza fretta, trotterellando sul bagnasciuga, tra i ciottoli della spiaggia. Le zone che resisteranno più a lungo "all'invasione dei nuovi barbari", sono le valli a Nord-Est di Koplik, incassate tra i ripidi versanti delle alpi albanesi che le sovrastano dall'alto di 2000 m. Questa è indubbiamente la zona montuosa tra le più selvagge ed inaccessibili del paese. I villaggi da cui siamo passati non vedono certamente molti stranieri, ma la curiosità e un'accoglienza cordiale hanno dissipato completamente i nostri timori di possibili rischi nei luoghi attraversati. Gli unici mezzi che percorrono queste valli sono dei grossi camion marcati Z.I.S. ovvero Zavod Imena Stalin, la Fabbrica di Nome Stalin. Costruiti in Cina su licenza Russa hanno resistito al tempo per decenni e a tutt'oggi fanno la spola su queste strade di montagna con il cassone stracarico di gente e di merci. Per i palati più raffinati ci sono invece le città-museo, tra cui Berat e Girocastro, che si impongono come tappe irrinunciabili per chi desideri vedere qualcosa di più oltre al paesaggio. Perché va detto che il litorale del Sud, pure bello, non giustifica da solo il viaggio (paragonato alle coste sarde, o corse, oppure alle vicine isole greche come Corfù) essendo ancora impreparato ad accogliere quelle forme sofisticate di turismo che sono la regola in altre località del mediterraneo. Questo stato di cose è destinato a non durare a lungo come del resto molti albanesi, a torto o a ragione, auspicano.

 

I motivi profondi di un viaggio in Albania vanno allora ricercati, a nostro avviso, in una visita il più possibile completa di un paese in rapida trasformazione per coglierne gli aspetti meno superficiali, dalle incredibili eppure tragicamente vere storie sul passato regime raccontate dalla gente, alla prospettiva insolita di un'Italia invidiata e considerata un paese del bengodi, al rimpianto esplicito per il periodo dell'occupazione fascista quando gli italiani erano considerati gente per bene e soprattutto di buon cuore: come una litania ricorre l'aneddoto dei soldati che rinunziavano al rancio in favore dei bambini che li attorniavano sempre numerosi. Qui vale la pena trovare tempo per pellegrinaggi solitari e consapevoli, volti alla scoperta dei paesi fantasma generati dall'esodo di massa di tre anni fa, quando, dissolte le barriere interne, c'è stato il grande esodo verso la Grecia, l'Italia, la Turchia. Oppure andare alla scoperta di piccoli e ormai semiabbandonati centri dell'entroterra raggiungibili solo lungo strade di terra battuta attraverso passi montani, come Voskopojë. Il fascino, irripetibile, è  quello di essere tra i primi a ritrovare un'arte minore, che si manifesta anche nei paesini più sperduti sotto forma di chiesette di rito ortodosso le cui pareti ricoperte d'antichi affreschi stanno ora cadendo in rovina. Fatte chiudere al culto da un regime che nel 1967 si autoproclamava il primo Stato Ateo del Mondo, adibite quindi a granai e a ricoveri agricoli sono state ignorate per decenni. Completamente spogliate giacciono ora in stato di abbandono per mancanza di fondi, come la chiesetta bizantina del cinquecento di Ristos a Mborja, presso Korçë, i cui affreschi rovinati metterebbero a dura prova l'opera dei restauratori. Dalla sistematica spoliazione unita alla dilapidazione di ampi settori del patrimonio artistico perpetrata negli anni bui si è giunti oggi ad uno stato di allarme generalizzato per i furti ricorrenti, di cui sono bersaglio privilegiato i musei, ridotti attualmente quasi senza eccezione all'ombra di se stessi, con le cose più pregevoli chiuse nelle casse dei depositi e una cronica mancanza di fondi per tirare avanti. Da tanta desolazione si salva il museo delle icone degli Onufri a Berat. Ma che dire delle altre migliaia tenute nascoste nei sotterranei per mancanza di spazi espositivi sicuri? L'unico ad avere conservato l'adamantino aspetto di efficienza è il magniloquente museo che a Krujë celebra Skanderbeg, l'eroe nazionale. Il castello che ospita il museo, completamente ricostruito e tirato a lucido, appare come una nota stonata nel contesto circostante. All'interno la profusione di gruppi marmorei, di vetrate colorate, di brutte raffigurazioni pittoriche dell'epopea di Skanderbeg, di stile vagamente näif, immerse in un nitore vacuo e scintillante, stridono fortemente con la quasi totale assenza di cose antiche, di una reale storia vissuta, assomigliando più ad una creazione alla Disney che ad una vera fortezza medioevale. Falso e pretestuoso, il museo ha nondimeno attraversato indenne i recenti sconvolgimenti, restando il meglio tenuto e più moderno d'Albania, a riprova del fatto che la fierezza nazionale, impersonata dalla lotta di Skanderbeg contro l'invasore turco, è rimasta un'eredità non effimera del passato. D'altra parte la sua statua è l'unica tra quelle dei vari "angeli custodi" del passato che sia rimasta salda sul piedistallo nella piazza di Tirana che ancora porta il suo nome. Per contrasto, lo stato di semiabbandono in cui si trovano le mura diroccate delle grandi fortezze del passato come quella di Rozafat presso Scutari, della possente fortezza di Gjirokastër oppure di quella che sovrasta la città di Lezhë (l'antica Lissus) fa ricordare con rimpianto un passato che non ritornerà più, mai più.

Giugno 1994