Nepal

 

Dolpo, la Terra dell’Abbondanza

Un trek nel Basso e nell'Alto Dolpo

Panorama dal Sela La

 

Testo e foto di Giuseppe Pompili

Premessa

Basso e Alto Dolpo non rappresentano solo una distinzione amministrativa. Manifestano una profonda diversità geopolitica ed etnografica. Il Basso Dolpo è abitato in prevalenza da induisti e la sua parte più meridionale è oggi raggiungibile anche tramite strada. La regione più a nord del distretto, chiamata Alto Dolpo, è separata dal Basso da passi di oltre 5000 metri, attraversabili solo a piedi e per pochi mesi l’anno. L’Alto Dolpo, isolato tra le montagne, è abitato quasi esclusivamente da popolazioni di origine tibetana e confina a nord con il Tibet con cui intreccia da secoli rapporti economici e religiosi.

Un po’ di storia

Carta con l'itinerario effettuato
Carta con l'itinerario effettuato
Branco di pecore azzurre(bharal)
Branco di pecore azzurre (bharal)

Il nome Dolpo deriva dalla parola tibetana “dol” che significa straripante, sovrabbondante, con riferimento non solo e non tanto alle risorse naturali, quanto al suo significato sacro. Il termine sa di ossimoro, sulla falsariga di ricca povertà, perché il Dolpo, specialmente l’Alto, è una terra difficile e aspra. Il territorio, esteso quasi tre volte la Valle d’Aosta, confina con le grandi cime di ghiaccio della catena degli Annapurna, dei Dhaulagiri e del Kanjiroba. I primi colonizzatori provenivano dagli altipiani del Tibet occidentale, spazzati dal vento, dove non ci sono foreste né alcuna agricoltura è possibile. Per questo la nuova terra dovette apparire come una sorta di Shangri-La. Benché sia il distretto più esteso del Nepal (tra i 75 in cui è suddiviso), resta ancora il meno popolato, contando neppure trentamila abitanti e ancor meno residenti. Il Dolpo nel corso del tempo ha fatto parte di un discreto numero di reami: dello scomparso regno di Guge (Tibet occidentale) così come del regno di Jumla (Purang, l’odierna Taklakot) nell’attuale estremo Nepal nord-occidentale nonché del suo potente vicino, il regno di Lo (il Mustang). Nonostante pagasse tributi ora a questo ora a quel re della regione, il suo stesso isolamento non ne ha mai reso facile il controllo da parte di chicchessia, preservandone per oltre un millennio l’unicità culturale e l’eredità religiosa. Il Dolpo venne aperto per la prima volta al mondo all’inizio degli anni '70, ma fu richiuso solo pochi anni dopo e per venti lunghi anni perché divenne il rifugio dei guerriglieri tibetani Kampa, che combattevano per l’autonomia del Tibet contro la sinizzazione forzata. Le tre valli principali dell'Alto Dolpo, Sibu, Nangkong e Panzang sono rimaste inaccessibili anche dopo il 1990, quando fu riaperto il Basso Dolpo. Solo nel 1994 vennero finalmente rilasciati i permessi per l'Alto. E nel 1999 Eric Valli, col suo film premio Oscar “Himalaya - L’infanzia di un capo”, fece conoscere la regione al mondo. L’Alto Dolpo è una delle poche regioni rimaste in Nepal dove ancora si pratica il bön - religione animista e sciamanica esistente in Tibet prima dell’introduzione del buddhismo. Nella forma attuale, questa fede è nata nell’XI secolo da un adattamento delle idee buddhiste alle credenze animiste indigene. Il bön conferisce maggiore enfasi alle attività degli spiriti e delle divinità piuttosto che alla filosofia. Le differenze delle pratiche bön col lamaismo sono sottili, consistendo nell’usanza di aggirare i chorten in senso antiorario, nel disegnare la svastica (segno di buona sorte) coi bracci a sinistra anziché a destra e nel cantare “Om Ma Tri Mu Ye Sa Le Du” al posto del più noto mantra buddhista “Om Mani Padme Hum”. Gli stessi dipinti dei monasteri bön sono pressoché indistinguibili da quelli dei gompa buddhisti: mutano solo i nomi dei personaggi raffigurati. Le due religioni hanno coesistito pacificamente per secoli in Alto Dolpo e lo fanno tuttora. La principale figura della spiritualità del Dolpo è il Prezioso Maestro Padmasambhava dell’ordine Nyingma del buddhismo tibetano, alias Guru Rinpoche, riconoscibile nei dipinti grazie agl'inconfondibili baffetti. Le scuole del buddhismo tibetano più diffuse in Dolpo sono quelle dei Sakyapa, dei Kagyupa e dei Nyingmapa, a cui si aggiungono i Bönpo. Mancano i Gelugpa, più noti come setta gialla, il cui capo spirituale - il Dalai Lama - è però riconosciuto come leader indiscusso, primus inter pares, e la sua effigie si trova ovunque, dagli altari dei gompa più sperduti sino al collo della gente comune.

L’atterraggio a Jhupal

Bambino a Namgung
Bambino a Namgung
Il Dhaulagiri, 8167 m, dal passo Jungben
Il Dhaulagiri, 8167 m, dal passo Jungben

Il nostro itinerario ha ripercorso in senso contrario quello di Peter Matthiessen del lontano 1973 - autore del celebre “Il leopardo delle nevi” - per favorire una più graduale acclimatazione. Iniziamo il trek da Jhupal diretti a Dho Tarap per concluderlo un mese e 400 chilometri dopo sulla Kali Gandaki, all'altezza di Kagbeni. Per iniziare il trek avevamo due possibilità: o in jeep lungo la pista che da Nepalgunj dopo due giorni di buche e sobbalzi termina a Jhupal oppure in volo. Manco a dirlo, optiamo per la seconda soluzione. Decolliamo alle 6 del mattino del 4 maggio sotto un sordo chiaroscuro d’alba, nelle ombre lunghe di un sole pallido che spunta tra le foschie del Terai. Il volo della Sita Air, una minuscola compagnia aerea che non ha neppure un sito internet, parte sempre molto presto per evitare le turbolenze di valle. Il velivolo è un vecchio Dornier 228 bielica da 18 posti più la hostess, occupati dal nostro gruppo e dalla guida a cui si aggiungono all'ultimo due o tre locali. L’interno dell’aereo è sudicio e pieno di zanzare che ne hanno fatto la loro abitazione e da cui pare non se ne vogliano più andare. I finestrini opachi ci permettono di vedere poco di quel che succede fuori e forse è meglio così. Il volo dura una trentina di minuti, sorvolando crinali vertiginosi, rasenti alle cime degli abeti. L’atterraggio è da brividi, su di una pista in salita a ridosso di un costone roccioso, molto peggio che all’aeroporto di Lukla. Un caffè solubile in un lodge del villaggio poco aiuta a rivitalizzarci il pancino, ancora in subbuglio per gli scossoni del volo.

La salita lungo il Thuli Bheri

Lo dzong di Tarakot
Lo dzong di Tarakot
Scolari a Dho Tarap
Scolari a Dho Tarap

Alcuni chilometri di facile sentiero in discesa tra campi terrazzati e sonnacchiosi villaggi induisti congiungono Jhupal all’ampia strada carrozzabile che segue il corso del fiume Thuli Bheri sino al paesino di Dunai, capoluogo del distretto nonché posto di controllo per i viaggiatori stranieri che devono obbligatoriamente registrarsi prima di proseguire. Dunai sembra una metropoli a paragone degli altri villaggi della valle, un vero crogiuolo di etnie. Sarti nepalesi riparano al volo qualsiasi indumento. Li vediamo indaffarati sulle macchine da cucire di marca cinese nelle loro microscopiche botteghe sul corso. Una quantità di spacci vendono di tutto un po’: dagli accendini alla coca cola alla birra ghiacciata. Pastori del Dolpo in trasferta offrono formaggio secco. C’è la corrente elettrica e i lodge sono dotati di wi-fi. Al Blue Sheep Inn, il cui nome è già un programma, ci attendono il cuoco e l’aiuto cuoco coi portatori dell’agenzia che ci hanno preceduto ieri via terra. In seguito si uniranno a noi tre giovanissimi cavallanti locali con nove muli. Montiamo le tende per la prima volta nel cortile del lodge, la prima di numerose altre. In questa parte della valle, i villaggi stanno a mezzacosta, in zone più soleggiate dove le coltivazioni sono possibili grazie ai campi terrazzati e all’irrigazione. A Lingdo, abbiamo la fortuna di assistere a un festival: una gara di ballo. Le danzatrici sono ragazzine indù: tutte portano il bindi, detto anche terzo occhio, un punto rosso dipinto sulla fronte. Danzano con grazia al ritmo di musiche indiane cantate da voci in falsetto, tonalità molto apprezzata da queste parti. Avevo letto di un gompa importante situato a Tarakot, minuscolo borgo situato poco sopra Lingdo. Lo raggiungo nel tardo pomeriggio e lo trovo chiuso a chiave. Attraverso le fessure della porta intravvedo l’interno devastato e in stato d’abbandono. A quanto pare, nella bassa valle il buddhismo tibetano non fa più proseliti. Alcune case raggruppate attorno al massiccio castello, o dzong, al centro del villaggio, sembrano abbandonante. Lo spopolamento delle altre frazioni nei dintorni si percepisce dai campi: molti sono incolti. Le jeep vanno e vengono ad appena un giorno di cammino da questo luogo e chi può, immagino, se ne va a cercare un’improbabile occupazione a Kathmandu o emigra per una stagione di lavoro nei paesi del Golfo, sempre affamati di manodopera a basso costo.

Dho Tarap, ovvero la Valle dei Cavalli Eccellenti

Dho Tarap
Dho Tarap, 4000 metri
La valle di Dho Tarap
La valle di Dho Tarap

Due giorni di cammino e l’attraversamento di un passo ci portano a Dho Tarap, un grosso borgo del Basso Dolpo. Siamo 77 chilometri a ovest di Jhupal, sul mio personalissimo odometro. Non facciamo in tempo ad arrivare in paese che ci coglie una nevicata: è il primo giorno di vero maltempo dalla partenza. Ci sistemiamo di corsa nell’unico lodge del villaggio, il Caravan Hotel, un tipico casone tibetano con al centro la grande stufa circondata da stuoie sopraelevate sui lati e di fronte. In fondo alla sala troneggia un’enorme credenza su cui fa bella mostra un lucido servizio di piatti e recipienti d’ottone d’ogni dimensione. Decidiamo di pernottare nella cucina riscaldata, ben fornita di Lhasa beer. Quella sera, seduti accanto alla stufa alimentata a sterco di yak, c’intratteniamo con la lettura della leggendaria storia di Dho Tarap: nell’VIII secolo, ai tempi del 38-esimo re del Tibet, Trisong Detsen, le tre figlie della potente demone Mani Insanguinate tentavano d’impedire la propagazione della nuova fede buddhista. Guru Rinpoche, invitato a Lhasa da re Trisong per diffondere il dharma, le scacciò e le tre demoni si rifugiarono in Dolpo. La maggiore di esse si stabilì in una valle che inondò creando uno sbarramento con la terra portata dall’India nelle pieghe della gonna. In seguito, dalle acque emerse un cavallo “Ta” di eccellente qualità “rab” e il luogo fu chiamato Dho Tarap “la valle dei cavalli eccellenti”. Guru Rinpoche, interrogato con astuzia un pastore di yak, riuscì a rintracciare la demone, cogliendola di sorpresa e distruggendola mentre stava meditando nuovi piani malvagi. Poi, con una spada, intagliò una gola nella montagna che permise lo svuotamento della valle. Il fertile terreno indiano portato dalla demone è unico in Dolpo e, dove le acque erano state imprigionate, sorse un passo, oggi noto come Kyezig La. Ai piedi della falesia accanto al passo fu sepolto il cuore della demone sotto trenta rotoli di scritture sacre. L’acqua ancor oggi fluisce dal cuore sepolto e si dice che berne tre sorsi elimini ogni influsso degli spiriti malvagi. Guru Rinpoche edificò poi il gompa di Ribo Bhumpa e tre grandi chorten a protezione della valle del Tarap dal ritorno dei demoni. Dho Tarap è oggi un tranquillo villaggio agricolo, con il suo chorten gigante nel cui interno affrescato sorge un chorten più piccolo, caso più unico che raro in tutto il Dolpo. Le attività agricole iniziano a metà maggio con l’aratura e terminano in ottobre col raccolto, prima che le gelate autunnali rovinino le messi di grano saraceno. Abbiamo assistito all’aratura dei campi eseguita, come secoli fa, da yak aggiogati a coppie che trainano aratri in legno.

Il “sindaco” di Chagaon

Filatrice a Dho Tarap
Filatrice a Dho Tarap
Bambino a Dho Tarap
Bambino a Dho Tarap

Superato con fatica il Jyanta La innevato, la nostra via d’accesso all’Alto Dolpo da Dho Tarap, giungiamo a Chagaon. E’ il primo grosso villaggio della valle di Nangkong dopo il passo. Alloggiamo in una casa privata perché non possiamo piantare le tende sulla polverosa strada del villaggio. Ci viene incontro il maestro elementare, che conosce l’inglese e insegna ai bambini durante la breve estate per poi tornare a Kathmandu prima che chiudano i passi. Avendo studiato, assume anche le funzioni di sindaco pro-tempore, di rappresentante della pro-loco e di chissà quali altre. Sul versante opposto della valle, alto sopra Chagaon, sorge Rapa gompa, con accanto la scuola monastica. Il sindaco si offre gentilmente di accompagnarci lungo i 200 ripidissimi metri che portano allo storico gompa, posto sotto una falesia strapiombante. Purtroppo è abbandonato, come la vicina scuola, pare a causa della difficoltà di approvvigionamento d’acqua. Il sindaco ci porta su per i pericolanti gradini e le scale tibetane sino a una stanzetta del secondo piano, dove pare che Matthiessen stesso abbia soggiornato. La troviamo spoglia e pericolante, con la vicina biblioteca saccheggiata e l’altarino devastato. In compenso, la vista dai ruderi sulla valle è spettacolare! Rapa gompa è solo uno tra i tanti luoghi del Dolpo che, dopo una storia secolare, stanno svanendo rosi dalle intemperie e dall’incuria. Il contrasto con i ben restaurati gompa del Mustang è stridente. Il problema, ci spiega il sindaco, sta nella mancanza di aiuti internazionali e di fondi, che vengono dirottati altrove, verso aree più note e frequentate dai turisti. Ci prega cortesemente di raccontare quanto abbiamo visto, nella speranza, un giorno, di riuscire a raccogliere fondi sufficienti se non per rendere abitabile il gompa, almeno per impedirne il crollo. Scendiamo mesti al crepuscolo di una giornata e di un mondo. Dopo cena ci ritiriamo nelle due grandi stanze al primo piano dell’abitazione, dotate del lusso di una fioca lampadina elettrica alimentata a pannelli solari. Dormiamo chiusi nei nostri sacchi a pelo, su veri letti tibetani. Ne paghiamo lo scotto con qualche morso di pulce: poca cosa di fronte agli “infiniti spazi e sovrumani silenzi” del Dolpo.

Il crollo di Namgung

Eremo diroccato alto di Namgung
Eremo diroccato alto di Namgung
Affreschi al gompa di Namgung
Affreschi al gompa di Namgung

I gompa del Dolpo assomigliano più a chiesette di montagna che alle città monastiche tibetane. Sono nidi d’aquila costruiti perlopiù in posizioni impossibili, difesi da impressionanti strapiombi. Il messaggio di fondo è trasparente: per raggiungere l’illuminazione bisogna isolarsi dal fragore del mondo, per elevare lo spirito occorrono studio, sacrificio e fatica. Così, ogni visitatore è tenuto a cercare dentro di sé la motivazione necessaria e si deve impegnare in gravose salite su impervi sentieri, l’incedere complicato dall’aria sottile. I gompa del Dolpo non raggiungono le dimensioni degli austeri monasteri tibetani e neppure si avvicinano per bellezza e splendore a quelli di Lo Manthang, nel confinante ex-regno del Mustang, restaurati e finanziati coi denari delle opulente fondazioni bancarie statunitensi. Non interessano praticamente a nessuno, figli di un Buddha minore. In compenso sono antichi. Paradossalmente, è proprio l’isolamento della regione che li ha preservati tanto a lungo. Hanno resistito fino ai giorni nostri, fino a quando i monaci li hanno abitati con continuità, facendo regolare manutenzione. Sono strutture massicce ma fragili allo stesso tempo, fatte unicamente di pietra, fango e legno. La vetustà incute meraviglia e timore. Timore della stessa meraviglia, forse, perché non tutti i gompa dureranno allo stesso modo. Alcuni stanno per scomparire, come Rapa gompa, altri sono già scomparsi, come la parte alta dell’eremo di Namgung, che sembra appiccicato a metà di una parete strapiombante. Lo troviamo in rovina, completamente diroccato e in parte franato. I muri squarciati rivelano gli affreschi dell’interno esposti alle intemperie. Per caso rintracciamo il lama custode, al lavoro nei campi vicini. Ci apre la porta del grande gompa rosso, quello più in basso, nei pressi del torrente. Sul retro, sorgono numerosi e monumentali chorten bianchi, così ravvicinati da costituire un labirinto impenetrabile, unico nel suo genere.

I tre Lama di Shey

Il lama di Shey
Il lama di Shey
Gruppo al Mo La, 5000 metri
Gruppo al Mo La, 5000 metri

Lo spopolamento del Dolpo è conseguenza della modernizzazione, del più facile accesso alla conoscenza: perché sopravvivere in un luogo impervio e gelido quando esistono alternative migliori a portata di mano? I monaci legittimamente scendono a compromessi in modo da presidiare solo i gompa più comodi, dove possono vivere, quelli al centro dei villaggi, coi tetti in lamiera dipinta di rosso e che i devoti non hanno difficoltà a raggiungere. Gli eremi più isolati, quelli di difficile accesso, sono frequentati solo in occasione dei festival o dell’arrivo di saltuari gruppi di visitatori. Tra questi spicca il grande gompa di Shey al centro di una valle solitaria, ai piedi della sacra Montagna di Cristallo, sorta di Kailash del Dolpo, versione tascabile del tibetano Ombelico del Mondo, ma anch’essa dotata di una Kora, il sentiero che ne permette il giro in senso orario. La Montagna di Cristallo è cristallina solo di nome perché non sembra diversa da quelle circostanti, con l’eccezione della porzione sommitale, sempre incappucciata di neve. Montato il campo su di un prato verde immediatamente ai piedi del grosso monastero rosso mattone ci mettiamo alla ricerca di qualcuno che possa mostrarcelo. In giro non c’è anima viva: l’edifico sorge in una valle disabitata, tra mulini di preghiera mossi dalle acque del torrente e giganteschi muri mani fatti da massicce e candide pietre ovali simili a uova di dinosauro. Tutte riportano inciso il mantra dei mantra “Om Mani Padme Hum”. Da una botola nel terreno, poco sotto le mura del monastero, vediamo spuntare, avvolto nel suo mantello rosso, un personaggio incredibile, uno dei tre lama di stanza a Shey. Ci accoglie con un ampio sorriso, senza parole. Sembra non conoscere l’inglese e benché indossi il costume tradizionale e abbia le chiavi del gompa, è forse solo un semplice monaco, un illetterato che accudisce al monastero. Chi è stato a Shey non lo scorderà mai più: alto, magro, con un volto rugoso e cotto dal sole, ornato da un canuto pizzetto sovrastato da un sorriso spontaneo, aperto, caldo, sincero al limite dell’ingenuità: l’epitome di una saggia benevolenza. Questa sarebbe l’accoglienza che mi aspetterei da un bodhisattva, se ce ne fossero in circolazione. E’ uscito dalla buca dove sono conservate le scorte di patate, al riparo nel sottosuolo dal gelo dell’inverno. Con naturalezza risponde alle nostre domande invariabilmente sempre e solo con un sorriso, tanto sa bene quel che cerchiamo. Ci apre il portone del gompa e attende paziente che terminiamo di scattare le foto dell’interno e poi ancora quelle assieme a lui. Non siamo i primi turisti che incontra: lo si capisce dalla naturalezza con cui accetta la nostra offerta. Lo accompagna un bimbetto di neppure dieci anni che ci osserva attento, inizialmente timido, con la curiosità tipica dei bambini, sempre in bilico tra ritrosia ed eccessiva confidenza.

Nell’abitazione adiacente al monastero incontriamo il secondo lama, più giovane e con la capigliatura nera, ma tutto serio e compunto. Mentre sorbiamo il tè in sua compagnia assistiamo alla discussione tra lui e un giovane studente nepalese dell’Università di Kathmandu che su incarico del WWF ha preso alloggio a Shey durante l’estate per studiare le abitudini di caccia nientemeno che del leopardo delle nevi. Neppure il giovane studente, che pure ha soggiornato nella valle per mesi, ha mai visto un leopardo dal vivo. Per fortuna dagli anni ‘70 la tecnologia ne ha fatto di progressi: oggi si ricorre a trappole fotografiche notturne, date le abitudini di caccia serotine del felino. Sul suo cellulare ci mostra con un pizzico d’orgoglio le uniche immagini del leopardo delle nevi che mai vedremo: un gattone maculato che fissa l’obiettivo con abbagliato stupore, sorpreso dal flash della fotocamera nell’atto di cibarsi dell’esca. Incontreremo altre tracce del leopardo solo nei pressi di un remoto passo verso Bhijer, ma solo gli escrementi, riconoscibili per le dimensioni e per il pelo animale in essi contenuto (e non posso escludere fossero di volpe o di lupo!).

La Montagna di Cristallo da Tsakang
La Montagna di Cristallo da Tsakang

Il gompa di Tsakang
Il gompa di Tsakang

All’esterno dal gompa incontriamo un signore di mezz’età, tarchiato e basso: il terzo e ultimo lama di Shey. E’ lui il mastro di chiavi dell’eremo di Tsakang, che sorge alto sulla Montagna di Cristallo. Gli chiediamo se è disposto ad accompagnarci fino al gompa l’indomani. Accetta di buon grado, nonostante per lui sia un evidente sacrificio. Il giorno dopo partiamo scarichi, diretti a Tsakang, distante appena tre chilometri da Shey. Il lama tarchiato ci conduce su di un ripido sentiero. Sale con noi per aprirci le porte, dato che il gompa è chiuso, accompagnato da un’anziana signora del luogo, forse la perpetua, forse la moglie, e da un bambino, magari il figlio. L’eremo è in buono stato di conservazione, in posizione scenografica al di sotto di una strapiombante falesia rossa posta su di un alto costone sul fianco del monte. Giunti al gompa, saliamo al primo piano, nella stanza privata del lama, al cui centro troneggia una grossa e pesante stufa in ghisa… chissà quanti sforzi sono costati portarla sino a 4500 m! Ci accoccoliamo a riposare sulle assi del pavimento in legno solcato da fessure e spifferi, mentre la signora accende il fuoco con alcuni rametti raccolti lungo il cammino per preparare il tè. Il lama è stato l’ultimo ad arrivare, non senza affanno. Si capisce subito che non ci viene spesso. Sorbiamo grati e in silenzio la bevanda per non turbare la quiete del luogo. Non c’è anima viva sulla montagna al di fuori del nostro gruppo. Siamo proprio isolati. Il lama si siede a gambe incrociate accanto a un altarino tibetano e inizia, come d’abitudine, a salmodiare i suoi mantra, sgranando meccanicamente il rosario. Le abitudini sono forme concrete del ritmo, sono la quota di ritmo che ci aiuta a vivere. Terminata la visita, un’ora appena di discesa ci riporta a fondovalle. Lungo il sentiero avvistiamo mandrie di timidissime pecore azzurre che fuggono rapide al nostro avvicinarsi.

Il Topo Schiacciato (Bhijer)

Panorama da un passo per Bhijer
Panorama da un passo per Bhijer

Lasciata Shey, c’inoltriamo verso nord, diretti verso Bhijer, nel Dolpo più profondo. Il nome significa, letteralmente, “topo schiacciato”. Una leggenda tramanda che un giorno un topo “byi” occupasse la terra. Un lama di passaggio desiderava pacificare la zona, liberandola dal dominio del topo. Dall’alto del passo che domina la valle e il villaggio scagliò un sasso che schiacciò “jer” lo sfortunato roditore. In quel punto fu edificato il gompa del villaggio, al cui interno si trovano affreschi restaurati alla meno peggio con vernice fresca da monaci bambini sotto la direzione di un solo lama anziano. Montiamo le tende nell’ampio spiazzo polveroso accanto alla pesante costruzione squadrata, consacrata al bön. Il gompa più interessante e antico di Bhijer è il millenario monastero Nyingma di Nasar, che sta all’altro estremo del villaggio, recentemente restaurato in parte grazie a fondi francesi. La figlia del lama si offre gentilmente di farci da guida (i Nyingmapa, uno degli ordini monastici del lamaismo che indossano i berretti rossi, si possono sposare e avere figli a differenza dei Gelugpa). La ragazza ha studiato e vive a Kathmandu ma si trova qui per alcune incombenze. Ammiriamo gli antichi affreschi, ahimè piuttosto deteriorati dalle infiltrazioni d’acqua lungo le pareti. I restauri si sono limitati all’assito e al coperto dell’edificio, ignorando i dipinti e le antiche sculture lignee che ritraggono Garuda alati e tigri, che si alternano l’uno dopo l’altra sotto ciascuna architrave. E’ un’incongruenza artistica: un essere magico del Mahābhārata, già presente nei Veda, all’interno di un tempio buddhista, come ci fa notare la signora, ma indicativa del sincretismo religioso di questa terra. Nasar gompa è una vera perla, un gioiello nascosto che da solo vale il viaggio in questa parte remota del Dolpo unitamente al suo cugino stretto, il gompa di Yanjer.

Il Gompa di Yanjer

Il vecchio ponte tibetano crollato a Yanjer
Il vecchio ponte tibetano crollato a Yanjer
Vecchia al gompa di Yanjer
Vecchia al gompa di Yanjer

Da Bhijer, valichiamo l’alto passo di Nengla La, 5365 m per raggiungere Saldang (da “sa” terra, e “dang” rialzata) nella valle di Nangkong. Qui ci concediamo finalmente un pomeriggio di riposo in vista dell’impegnativa escursione al monastero di Yanjer, nei pressi di Nisalgaon. Sarebbe più diretto scendere lungo il greto del torrente, il Nagaon Khola, ma commettiamo l’errore di prendere il sentiero a mezzacosta, nella speranza di visitare i villaggi lungo la strada. Il percorso alto presenta lo svantaggio di compiere parecchie svolte e saliscendi per aggirare i torrenti laterali, moltiplicando le distanze. Finalmente, dopo 4 ore di marcia, siamo al ponticello d’assi a 3710 metri che porta all’imbocco della valle di Nisalgaon, una dozzina di chilometri oltre Saldang. Poco più avanti ci portiamo sulla destra orografica della valle, superando il torrente su di un moderno ponte sospeso che è stato da poco costruito accanto al vetusto ponte tibetano crollato. Un’ora di dura salita in diagonale ci conduce al recinto del gompa di Yanjer, preceduto da lunghissime fila di grandi chorten bianchi, unici nel Dolpo e, oserei dire, in tutto il Nepal. Ci accolgono incuriositi alcuni giovanissimi monachelli che c’introducono all’interno. Siamo arrivati casualmente giusto all’ora di pranzo, quando si dice la sorte, in tempo per essere ospiti del lama e di un’antica signora tibetana d’età indefinibile, con gli occhi sepolti sotto una montagna di rughe: il sole e il vento del Tibet non giovano certo alla pelle… Non ci viene chiesto niente in cambio. Siamo ospiti e tanto basta. La zuppa di noodles con patate che ci viene servita in una tazza di porcellana cinese ci pare degna di una pietanza dello chef stellato Bottura. Non è stato facile arrivare sino a Yanjer, il punto più a nord del nostro viaggio, e ci è costato fatica, ma nessuno pensa che non ne sia valsa la pena. Il solo rammarico è che in un viaggio non breve, in un mese di trek, disponiamo solo di un’ora di tempo da trascorrere in questo luogo isolato ma ospitale, a un tiro di schioppo dal Tibet, senza guardie, confini o reticolati. Questa è la sola cosa che rimpiangiamo: non essere liberi di disporre di più tempo da trascorrere in questo luogo.

Tinjegaon e lo Yarsagumba

Lo Yarsagumba
Lo Yarsagumba
Panorama in alto sopra il Mo la
Panorama in alto sopra il Mo la

Camminiamo paralleli al confine col Tibet, da cui ci separa una catena di montagne le cui vette toccano i 6000 metri. I passi più alti del Dolpo si trovano qui e portano in Cina. Sono attraversati da carovane di yak che trasportano merci cinesi e persino da motociclette, anche se non ci sono strade. Arrivati a Tinjegaon troviamo il paese pressoché deserto. Tutti gli abitanti, tranne i vecchi e i bambini, sono andati alla ricerca dello yarsagumba, il fungo tanto apprezzato dalla medicina tradizionale cinese da farne crescere il consumo in modo esponenziale e la cui raccolta assorbe buona parte della forza lavoro locale. Da qualche anno, sul finire della primavera e subito dopo la semina, interi villaggi si svuotano e persone e vettovaglie si trasferiscono nelle aree più remote, per montare campi tendati al limitare della linea della neve, che arretra con l’avanzare della stagione. Qui si raccoglie la pianta-animale che si vende a peso d’oro sui mercati di Hong Kong, soprattutto per le sue proprietà afrodisiache. La ricerca e la raccolta stanno sottraendo risorse e tempo agli abitanti del Dolpo, attratti da un rapido guadagno. Ecco il perché dei campi incolti e dei villaggi vuoti. E poi, tutti a Kathmandu, a spendere il ricavato.

Jungben La, inizio e fine del Dolpo

Penitentes al passo di Jungben La
Penitentes al passo di Jungben La
Il passo di Jungben La, 5550 metri
Il passo di Jungben La, 5550 metri

Per andare dal Dolpo al Mustang bisogna affrontare due alti passi: uno pseudo-passo, il Niwas La, 5120 metri, e suo fratello maggiore, il Jungben La, 5500 metri. E’ questo il punto più alto del viaggio, tra mucchi di sassi votivi e coloratissime bandiere di preghiera tese dal vento forte. Per buona sorte troviamo il valico sgombro dalla neve a eccezione di un piccolo campo di penitentes sul versante in discesa. Una corta salita dal passo porta il trekker riluttante a un balcone naturale da cui è possibile ammirare la vetta del Dhaulagiri, unico punto di tutto il viaggio da cui è visibile Sua Maestà Mule Kangri, uno dei quattro grandi massicci coperti da ghiacci perenni che stanno a sui confini del Dolpo. Riesco a fotografarlo, complice la giornata spaziale. “Sul Dhalaghiri fare sempre brutto tempo”, mi diceva un grande dell’alpinismo, il buon vecchio Kurt Diemberger. Lui sì che in cima c’è arrivato, mica come il sottoscritto che si è dovuto arrendere mille metri più in basso! Saluto, forse per l’ultima volta, la vetta da quest’insolita prospettiva, con un pizzico di malinconia, poi m’incammino lungo la ripida china che dal passo scende sino a Ghaldan Ghuldun. E’ un ricovero in tubi Innocenti e lamiera dal tetto dipinto di blu, forse un omaggio involontario ai cerulei cieli del Dolpo. Da lontano sembra un rifugio ma è più che altro una baracca con funzione di riparo per uomini e bestie. Spoglio e ricoperto da deiezioni animali, l’interno non invoglia certo a sostarvi, tanto che preferiamo campeggiare all’aperto tra gli alberi radi e rachitici di una foresta che va scomparendo proprio a questa quota. La cosa non ci dispiace troppo perché sono settimane che non vediamo l’ombra di un albero. Ci rendiamo presto conto che il viaggio è terminato: l‘universo spoglio e autarchico del Dolpo pare ad anni luce di distanza. Ancora due giorni d’impegnativo cammino ci separano dalla Kali Gandaki ma già nel primo villaggio, Sangda, troviamo un ripetitore per cellulari e uno sterrato carrozzabile. Ogni volta che si costruisce una strada, ogni volta che termina un isolamento secolare, i cambiamenti accelerano, le distanze si accorciano, le persone migrano e i villaggi si spopolano. Come risultato un mondo fatto di tradizioni, consuetudini, solidarietà si avvia a scomparire. Com’è già accaduto nel vicino Mustang, così accade oggi nelle parti più esterne del Dolpo, quelle più facilmente aggredibili dalla motorizzazione. Certo, il cuore del distretto resta nel perimetro della tradizione a dispetto dell’incalzare della modernità e del suo corredo d’orpelli. Credo ci rimarrà ancora a lungo, per via della sua marginalità unita alla difficoltà d’accesso. E’ una consolazione, ma bisognerebbe chiedere che ne pensano i contadini di Dho, di Chagaon e di Saldang che abbiamo visto spaccarsi la schiena tirando il giogo degli yak riottosi in una faticosa aratura con la promessa di un precario raccolto. Un giorno ancora e scendiamo a Jomsom. In città c’è un aeroporto, ATM per fare cassa, alberghi, Illy caffè, bar, agenzie di viaggio e pure una German Bakery, quasi fossimo nella Disneyland del Khumbu. Il nostro cammino termina qui: per alcuni un’esperienza esclusiva, per altri un inferno. Finalmente, dopo 27 giorni, possiamo farci una doccia calda, riposare su di un letto pulito, gustare un pasto decente e leggere le ultimissime notizie su internet. Che sollievo, che pace. Che orrore! Lakpa mi guarda e sorride: bentornati nella civiltà.

Giugno 2018

Bibliografia minima

1. Lindsay Brown, Stuart Butler – Trekking in the Nepal Himalaya – travel guide – Guida in inglese della Lonely Planet, 376 pag., 63 pag. a colori - 10 Ed. Gen. 2016, € 18,95

2. Paolo Cognetti et al. – Meridiani Montagne – Himalaya - Dolpo – n°90 Gruppo Editoriale Domus, Rivista in italiano € 7,50.

3. Dolpo Amchi Namgyal Rinpoche – Dolpo - The Hiddden Land – Ed. Cherry Bird - Kathmandu Rs 2.000.