Micronesia

Incanto Liquido

Testo di Giuseppe Pompili

Micronesia. Cinque grandi atolli montuosi, disseminati nel Pacifico occidentale tra una miriade d'isolette di sabbia di corallo. Cinque note di una sinfonia marina, tracciate su un pentagramma in tinte turchine. Cinque montagne tappezzate di velluto verde, nate come Afrodite dalle acque. I migliori fondali per lo scuba diving e lo snorkeling, traboccanti di vita multicolore e multiforme. Il nostro bel mondo azzurro è chiamato pianeta Terra, ma sarebbe giusto fosse soprannominato Liquido in omaggio al Pacifico, un oceano vasto quanto un emisfero. Il tempo fluisce con lentezza nei quattro stati federati di Micronesia: Chuuk, Pohnpei, Kosrae e Yap a cui si aggiunge la repubblica indipendente di Palau. La Federazione di Micronesia si è liberamente associata agli USA, ma dopo la fine della guerra fredda anche gli aiuti economici statunitensi si sono raffreddati e si esauriranno nel volgere di qualche anno. E' il prezzo da pagare per l'indipendenza, uno scotto che assume l'aspetto d'un lento e inarrestabile declino. Le strade asfaltate si riempiono di buche, i rifiuti si ammucchiano in cumuli che nessuno si prende più la briga di rimuovere e le lattine vuote di Budwiser si raccolgono ovunque. In Micronesia si è ben lontani dal modello d'efficienza nippo-americano che vige a Guam, equidistanti sia dal cemento di Honolulu che dalle spiagge gremite di Tahiti. E' un altro pianeta, circonfuso dalle mille sfumature smeraldo e acquamarina dei fondali tappezzati da campi di corallo morbido che si piegano dolcemente alla corrente. E' un universo popolato dall'infinita varietà dei pesci farfalla, angelo e pappagallo. I pesci pagliaccio si nascondono fra i tentacoli degli anemoni mentre passano branchi di squali dalla pinna bianca. Le tartarughe ti passano accanto, ma le mante vanno attese con pazienza, accovacciati nelle profondità, per non turbarne le ampie giravolte. Le mante sono dei giganti buoni, imponenti quanto un jumbo in decollo e grandi come la porta di un garage, che si esibiscono in una leggiadra danza acquatica, lenta e solenne.

Chuuk

Nella laguna di Chuuk è sepolta buona parte della sesta flotta giapponese, affondata dagli americani nel febbraio '44. Moen, l'isola più popolata dell'atollo, è anche la più caotica e trafficata. L'unica spiaggia praticabile dell'isola resta sommersa due volte al giorno per l'alternarsi della marea. Tuttavia, per chi ama le immersioni tra i relitti, non vi è sito migliore. Sessanta navi e aerei giacciono sul fondo della laguna, distribuiti intorno alle isole di Dublon, Fefan e Uman a profondità variabili tra i dieci ed i centocinquanta piedi, nascoste dalle acque profonde blu cobalto. Al passaggio del motoscafo la superficie marina si fende in due onde di schiuma bianca che cancellano la visione di ciò che riposa in fondo al mare. La guida conosceva bene il punto esatto dove fermarsi, facendo impigliare l'ancora su di un albero sommerso della Fujikawa Maru. Spento il motore, la barca ha preso a dondolarsi dolcemente sulla superficie tranquilla della laguna, sospesa sopra un mare dai riflessi dorati. Giù, più in basso, adagiata in un liquido spazio blu, giace la nave spettrale, ricoperta da madrepore e coralli. Il castello di prua è imploso, e lascia intravedere attraverso ampi squarci l'interno cupo e misterioso. Branchi di pesci colorati si rifugiano all'interno, tra le nervature di ferro bruno e le lastre di copertura sfondate, che rendono il relitto simile ad una carcassa incartapecorita. Il profilo di un cannone ricoperto di ruggine arriva a tre metri dalla superficie, fissato nell'atto di attraversare la sottile linea di confine tra i due elementi, pronto a riemergere. Nuotare sopra e accanto ad una portaerei affondata infonde un sottile senso di piacere, indissolubilmente legato al brivido, come ogni volta che da bambini esploravamo una stanza oscura e ci si svelava un mondo misterioso.

Pohnpei

Un'isola tropicale impervia, calda, umida e piovosa, scenario perfetto per il seguito di Jurassic Park. Scorgere all'improvviso tra le brume dell'oceano il profilo frastagliato di alte montagne scoscese, ricoperte da nuvole basse e da un manto di vegetazione impenetrabile richiama alla memoria i tepuys venezuelani e il mondo perduto di Conan Doyle. Dato il carattere montuoso dell'isola, la pista d'atterraggio è stata costruita sul reef, collegata alla terraferma da una lunga sopraelevata. La corta striscia d'asfalto si nota solo dopo aver toccato terra, dando ai nuovi arrivati l'impressione di precipitare in mare. La capitale federale della Micronesia, Palikir, si trova sull'isola di Pohnpei, la più vasta dell'arcipelago. La sua costruzione è stata decisa a tavolino, come Brasilia, e al pari di quest'ultima è un luogo senz'anima, un aggregato di solitari edifici governativi circondati dalla giungla. La città principale è invece Kolonia, dove la K davanti al nome è uno dei pochi lasciti del periodo coloniale tedesco, senza dubbio il più durevole. Molto più antica è la città morta di Nan Madol, simile ad una Venezia tropicale. La giungla se l'è ripresa, e per avventurarsi tra le rovine megalitiche occorre giungere dal mare e attendere l'alta marea. Si procede navigando in un labirinto di canali, nascosti dalla volta di mangrovie, costeggiando le mura pericolanti di blocchi esagonali di basalto. E' tutto ciò che resta di una civiltà e di un impero.

Kosrae

Tra gli stati di Micronesia, Kosrae, oltre ad essere il più isolato, è anche il meno conosciuto. Basti pensare che in qualsiasi stagione dell'anno gli occidentali si contano sulle dita. Turisti italiani non se ne vedevano da anni. I ritmi sono, se possibile, ancor più rilassati che a Pohnpei. Il decentramento ha agevolato il compito dei missionari delle sette cristiane riformate che, all'inizio del secolo, complici le diffuse epidemie di vaiolo che avevano preparato il terreno decimando la popolazione, hanno soffocato l'isola con una cappa di pudibonda moralità. I congregazionalisti, cui si sono aggiunti gli avventisti, i testimoni di geova e i mormoni, per completare l'opera con una sparuta minoranza cattolica, hanno sradicato le antiche usanze, i costumi e il culto degli antenati. La totale amnesia, unita al rifiuto del proprio retaggio, assume le proporzioni di un genocidio culturale. Il fanatismo religioso degli isolani ha pochi equivalenti nella galassia cristiana contemporanea, essendo paragonabile per intensità e zelo solo alla stretta osservanza islamica. Di domenica la società civile si ferma completamente. Ogni attività lavorativa è bandita. Le donne indossano lunghe vesti bianche bordate di pizzi e trine e tutti partecipano alle funzioni religiose, ai canti corali. Non rimane che andare a spasso per l'isola, vagabondando tra le rovine di Lelu, l'antica città fortificata dalle mura di corallo, e pedalare lungo la strada che per tre quarti compie il periplo dell'isola, sotto un sole giaguaro.

Yap

Yap è l'isola delle enormi monete di pietra, delle mante colossali e delle stradine lastricate di corallo. I viottoli di pietra s'inoltrano attraverso una lussureggiante vegetazione tropicale ai cui lati, ben nascoste tra palme da cocco e mangrovie, si celano le case. Yap resta il solo stato della Micronesia a custodire e difendere gelosamente il proprio retaggio dall'assalto del cambiamento. Ci sono strade e automobili, televisori e liquori, ma l'invadenza del progresso è contenuta in proporzioni accettabili. Le case degli uomini, nonché quelle adibite alla vita sociale della collettività, serbano ancora l'antico uso e sono frequentate con regolarità per matrimoni e feste. Gli abitanti di Yap non permettono l'accesso incondizionato in ogni luogo della loro isola. Si sono riservati degli spazi inaccessibili ai forestieri, per salvaguardare la propria dignità dietro la barriera della privacy. Le donne indigene sono solite portare il seno nudo, anche se mostrare le cosce scoperte o indossare una minigonna è considerata ancora una volgarità, (strano il mondo, non è vero?) e molti uomini indossano il tradizionale perizoma di fibra di palma. L'etichetta e la semplice cortesia impongono allo straniero di chiedere con gentilezza il permesso per qualsiasi cosa, sia per curiosare all'interno dei villaggi che per scattare fotografie. Luoghi all'apparenza abbandonati sono in realtà rigorosamente di proprietà privata, per di più gelosamente custodita. Yap è un unico grande giardino, in cui la maggioranza delle persone si procura da vivere in maniera semplice, coltivando taro e frutta, pescando, allevando polli e maiali. A guastare l'idillio provvede una visibile debolezza, che fa parte della natura umana e svela i limiti di questo Eden apparente: la dedizione assoluta degli isolani alla noce di betel, masticata da grandi e piccini, unita alla passione invereconda che tutti nutrono per la birra. Le lattine abbandonate sono ubique, più comuni dei gusci di cocco svuotati. Per procurarsi i denari necessari all'acquisto gli abitanti di Yap hanno fissato una tariffa per accordare il diritto di visitare e fotografare le men house dell'isola: due dollari e mezzo a persona. Non è una cifra irragionevole e lo scopo non vuole essere quello di scoraggiare i turisti. Rappresenta tuttavia la prova dell'universale diffusione dei difetti naturali, ineluttabili per tutti gli uomini a qualsiasi latitudine essi vivono, foss'anche in paradiso.

Palau

Palau è uno stato indipendente, il più nordamericano della Micronesia, ma anche il più seducente. Gli States sono davvero di casa qui, e lo si nota attraverso i super store abbondantemente forniti, le boutiques invase da merci griffate, i soliti McDonald's e le aree di servizio Mobil, per non parlare delle numerosissime auto e della presenza di ben due semafori a Koror (di cui uno rotto). Neppure tanta modernità è riuscita ad intaccare la selvaggia bellezza delle centinaia d'isole disabitate che sorgono all'interno del reef: le Rock Island. Sono enormi funghi di calcare, a picco dall'acqua, simili alle verdi isole della baia di Halong, in Vietnam, ma incomparabilmente più belle. L'acqua cristallina brulica di vita sottomarina, tanto da far impallidire il confronto con altri luoghi subacquei famosi, come il Mar Rosso. Tartarughe, squali, pesci tropicali, tutto l'immaginabile e altro ancora, convive a pochi metri sotto al pelo dell'acqua, in un vero e proprio giardino sottomarino. Ho visto una tridacna di un metro di diametro che pulsava come un gran cuore a pochi metri di profondità, così enorme e colorata da far pensare che al suo interno potesse contenere una perla delle dimensioni di un pompelmo, se le tridacne fossero ostriche. All'interno d'un isolotto si nasconde un lago d'acqua salata unico nel suo genere. E' il jellyfish lake, popolato unicamente da milioni di piccole meduse non urticanti, in cui ci si può immergere come in un mare di vita pulsante.

Le isole dei sogni

La Micronesia resta virtualmente esclusa dal mercato turistico occidentale, sfavorita dalle grandi distanze e dall'elevato costo della vita. Se questo ancora non basta per giustificare una visita, ci si può ancora imbarcare a Yap e navigare per due settimane attraverso gli atolli esterni, i più isolati e incontaminati del globo, dove la gente vive senza energia elettrica e abita in capanne dai tetti di foglie di palma intrecciata. Oppure noleggiare una barca e andarsene a zonzo tra le Rock Islands, per assistere al tramonto dalla cima appuntita di una qualsiasi di esse, magari sorseggiando rum diluito con latte di cocco. Non è un paradiso perduto, ma uno spicchio di mondo dove la vita scorre in maniera diversa da quella cui siamo assuefatti. Un'esistenza governata da altri ritmi, priva degli orpelli tecnologici e dei grandi numeri che c'invadono. Un mondo certo alla portata di molti, ma fortunatamente non di tutti.

Maggio 1996

Bibliografia

  1. Glenda Bendure, Ned Friary Micronesia - a Lonely Planet travel survival kit - Australia 1998 - 3ª Edizione, pp.336 con foto a colori, 28.000 £. Guida in lingua inglese della LP.