Etiopia

 

Dancalia in Trasformazione

Un viaggio nella terra degli Afar

Pozze nel Dallol

 

Testo e foto di Giuseppe Pompili

Tramonto sul lago Karum
Tramonto sul lago Karum
Il canyon di Seba
Il canyon di Seba

Avevo timore di visitare la Dancalia, ma non per le vecchie cronache di rapimenti e uccisioni di turisti nei pressi del confine con l’Eritrea. Temevo d’essere arrivato fuori tempo massimo. I viaggi turistici nella terra degli Afar sono ripresi solo l'anno scorso, dopo una sospensione durata un lustro: dopotutto forse non era poi così tardi. Per comprenderlo è necessario ricapitolare un po’ di storia: il paziente lettore mi perdonerà. L’Eritrea ha ottenuto nel 1993, dopo trent’anni di guerriglia, l’indipendenza dell’Etiopia in seguito allo schiacciante risultato di un referendum. Il buon vecchio Hailé Selassé, reinstallato Negus dai britannici dopo la sconfitta italiana, aveva pensato bene di annettersela nel 1962 come14-esima provincia dell’impero etiope, con il tacito avallo delle potenze occidentali. Successivamente, sotto il regime militare socialista di Mengistu, la situazione non era migliorata: la logica imperiale aveva avuto la meglio sull’ideologia egualitaria. In seguito all’esilio del Negus Rosso il conflitto terminò con l’indipendenza dell’Eritrea dopo un pronunciamento popolare sotto l’egida dell’ONU. Ma la faccenda non era destinata a sistemarsi tanto presto: da allora e per lunghi anni i due paesi sono rimasti invischiati in dispute sui confini. Nel 1998 iniziò una guerra per il possesso di Badme, una località sperduta a cavallo del vecchio confine coloniale italo-abissino. A causa dell'imprecisa definizione della frontiera stabilita nel 1902 fra l'Italia (allora potenza coloniale in Eritrea) e l'Impero d'Etiopia, lo status della località e delle aree circostanti non fu mai del tutto chiaro. Per quella pietraia sassosa e polverosa morirono circa ottantamila soldati, in uno scenario bellico devastante. Poi, dal 2000, con gli accordi di Algeri, si giunse a un “cessate il fuoco provvisorio”, ma le bande di ribelli eritrei e i militari etiopi hanno imperversato nella regione, coinvolgendo i rari turisti di passaggio in episodi di rapimento o peggio. Così, nel 2007 e poi ancora nel 2012, si sono verificati episodi di violenza che hanno portato alla chiusura della regione al turismo per anni. All’inizio del 2018 nessuno avrebbe immaginato che erano maturati i tempi per cambiamenti radicali nelle relazioni tra Etiopia ed Eritrea (ma la cosa non dovrebbe sorprendere troppo se si pensa all’ingresso sulla scena africana dell’ultimo decennio di un nuovo e potente attore commerciale: la Cina). La “sorpresa” è stata ufficializzata nel giugno di quell’anno, quando il presidente etiope ha dichiarato che il suo esecutivo avrebbe rinunciato alle rivendicazioni territoriali in Eritrea. Poco dopo, in luglio, è stata firmata una dichiarazione che ha posto fine allo stato di guerra tra i due paesi con la riapertura della rotta aerea diretta tra le due capitali, Addis Abeba e Asmara, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate. A siglarla sono stati Abiy Ahmed, nuovo presidente etiope, e il presidente eritreo, Isaias Afwerki. In seguito alla firma degli accordi di pace è tornato relativamente sicuro visitare le zone di frontiera tra i due paesi, tra cui la depressione della Dancalia, la parte più settentrionale della depressione di Afar, detta anche “triangolo di Afar”. Il nome è dovuto alla divergenza di tre placche tettoniche nel Corno d’Africa, allontanamento che ha generato un bassopiano vulcanico e arido che si estende sotto il livello del mare. In quest’area geologicamente attiva sorgono diversi vulcani, tra cui il Dallol, l’Erta Ale, l’Erta Leva e l’Ale Bagu. L’intero territorio è disseminato di conetti vulcanici e solcato da fenditure e faglie tettoniche. Le aree più basse sono colme delle acque salate di laghi come l’Afrera (o Giulietti) e il Karum (o Asale) a 123 m sotto il livello del mare. I laghi sul confine con l’Eritrea sono alimentati dalle acque del fiume Auasc, che nasce nei pressi di Addis Abeba per estinguersi nella depressione dancala, dopo un tragitto di 1200 km.

Troppo tardi o troppo presto?

LCarovana del sale ad Ahmed Ela
Carovana del sale ad Ahmed Ela
Cavatore di sale
Cavatore di sale

La voglia di un viaggio in Dancalia era scaturita in parte dalla testimonianza dell’esperienza tra gli Afar di Pietro de Andreis, capogruppo storico di Avventure che c’era stato negli anni ‘80, e in parte dalle mie letture di Hugo Pratt. Proprio lui, l’indimenticato autore di Corto Maltese, l’eroe romantico della mia giovinezza. HP è uno che in Dancalia ci ha vissuto sul serio, da ragazzo, al seguito dell’effimero sogno coloniale fascista. I personaggi della sue storie sono tratti da vicende di vita vissuta: come non riconoscere in Cush il Dankali “c’era qualcosa di affascinante nella crudeltà di Cush, quel suo rispetto per la legge del profeta e il desiderio di libertà che aveva. Era un Dankali sino alla punta del suo pugnale” il partigiano etiope (arbegnuoc) in carne e ossa che Hugo Pratt aveva affrontato sulla soglia di casa sua, nel Villaggio Littorio di Addis Abeba, in seguito alla fine dell’occupazione italiana. Hugo Pratt racconta: “mi trovo davanti un personaggio sconvolgente, a parte i capelli lunghi di cinque anni, le armi, le cartuccere incrociate sul petto alla bandolera, portava appesi alla cintura coglioni, osei, trecce tagliati via agli italiani”. Quello che le potenze dominanti derubricano tutt’al più come rappresaglia, se a compierla sono loro, è chiamato terrorismo se praticato contro di loro. Presso i Dankali la rappresaglia deve compiersi entro il giorno successivo all’affronto. Etnologi riferiscono che, presso questa gente, un uomo che uccideva per la prima volta acquisiva il diritto di sfoggiare una piuma fra i capelli, la seconda volta d’impreziosire il suo coltello o il suo fucile con dell’argento e alla decima uccisione poteva portare un braccialetto di ferro. Le donne non erano da meno, figlie di una terra la cui violenza e durezza sono proporzionali a una natura impietosa: la cicatrice di una scudisciata somministrata da una bella e selvaggia amazzone locale al giovane Pratt, colpevole di un’occhiata sconveniente, resteranno per sempre indelebili sulla testa e nella memoria dell’artista. Tutto questo non esiste più da almeno mezzo secolo, tanto per esser chiaro.

Cammelli a riposo sulla piana del sale
Cammelli a riposo sulla piana del sale

Gli Afar, l’etnia che popola al 95% la Dancalia, oggi vivono di pastorizia in piccoli villaggi dove l’acqua è fornita da autobotti del governo e parte del cibo da aiuti internazionali. Abitano in capanne, tende (burre) o baracche di lamiera. Si entra nel loro territorio previo pagamento di un biglietto e la visita richiede l’accompagnamento di una guida e di poliziotti di scorta oltre il lago Afrera. Passata Semera, abbiamo iniziato a notare uomini armati lungo la strada, tra cui ragazzini che si portavano con noncuranza un’arma a tracolla, oltre a militari e via discorrendo. E’ un retaggio del passato, che ora appare bizzarro, ma che sino a qualche anno fa garantiva l’autodifesa dagli attacchi dei guerriglieri, nonché il rispetto dei propri simili. Questa situazione, lungi dal trasmettere una sensazione di minaccia, non è mai stata fonte di tensione data l’assenza di atteggiamenti aggressivi unita a un’intenzione amichevole pur se distaccata. La maggior parte degli adulti sono cortesi, per quanto poco visibili, (forse a causa di un’ancestrale riserbo nei riguardi dello straniero) mentre i bambini, petulanti al limite della prepotenza, costituiscono spesso una seccatura, figlia del turismo massivo e del sostanziale stato di abbandono in cui crescono. In certe aree la scuola è lontana come un miraggio e l’istruzione non è certo il primo dei sogni. L’impressione è che si muovano col tacito consenso dagli adulti per cercare con ogni mezzo lecito di carpire qualche birr ai turisti di passaggio, improvvisandosi guide o vendendo fossili. Se la mancia non è ritenuta adeguata scatta l’aggressività. Siamo stati testimoni di pietre scagliate contro i nostri fuoristrada da ragazzini, forse solo per gioco, forse per noia o passatempo, nonostante avessimo un poliziotto armato a bordo, la cui deterrenza sembrava valere poco o nulla. Per fortuna si è trattato di un episodio isolato. Sono questi ragazzini senza retaggio né educazione gli eredi dei fieri guerriglieri Dankali, castratori di nemici, pienamente attivi fino a un paio di generazioni fa. La dura tradizione del passato è stata cancellata dalla fine della guerra e di un impero, oltre che dalla crescita demografica. Oggi le insidie sono altre: dietro alle filantropiche iniziative di sviluppo, finanziate e portate avanti dai cinesi nel sostanziale disinteresse dell’Europa, si nascondono nuove ambizioni coloniali. Una strada asfaltata di costruzione cinese presto collegherà l'Erta Ale al Dallol, mentre quella che collega il lago Afrera con Abala (e quindi Macallè) è già una realtà. I tempi di percorrenza si accorciano. Le nuove strade e ferrovie promuovono sviluppo e commercio, addomesticano e rimpiccioliscono il territorio. Come effetto collaterale finiranno presto col dare il colpo di grazia all'economia del sale trasportato a dorso di cammello, retaggio di un passato che ancora si rifiuta caparbiamente di scomparire.

Un mondo che scompare

Guardia armata al Dallol
Guardia armata al Dallol
Jeep arrugginita alla miniera italiana abbandonata a Dallol
Jeep alla miniera italiana abbandonata

Impieghiamo un’ora per uscire da Addis Abeba attraverso una grande e moderna autostrada, la Express Way: arteria costruita con l’aiuto dei cinesi per i camion che vanno e vengono da Gibuti, oramai porto cinese di Addis Abeba. Solo nel 2008 questa strada non era asfaltata e occorreva molto più tempo per percorrerla. Adesso, grazie ai cinesi e ai loro capitali, non si mangia più la polvere e il manto stradale è di ottima fattura. Gl’interessi del Dragone si toccano con mano anche nel pieno centro della capitale, dov’è in costruzione un nuovo grande stadio di calcio. Oltre Auasc la strada presenta numerose buche e interruzioni dovuti a lavori in corso. La carreggiata spesso è invasa da animali vaganti che rendono pericoloso spostarsi dopo il tramonto, come ci spiega il nostro autista. Lungo questa parte di tragitto, nel tratto prima di Logya, abbiamo contato diversi gravi incidenti con mezzi pesanti rovesciati che ostruivano la sede stradale. La via nazionale A1 tra Addis Abeba e Gibuti segue il tracciato della vecchia ferrovia a scartamento ridotto costruita dai francesi durante la prima guerra mondiale, ora in disuso. Dell’antico tracciato ferroviario restano solo alcune stazioni abbondonate, come quella di Auasc, dai binari divelti. Qui siamo andati, quasi in religioso pellegrinaggio, al Buffet d’Aouache. Il ristorante della vecchia stazione è gestito da una signora segaligna di origine greca (che ha forse conosciuto la mitica Madame Ki) assieme al marito, che però non s’è visto. L’anziana dal volto antico, inciso da rughe come una ragnatela, si è rivolta a noi in un ottimo italiano e ci ha raccontato dei tempi andati, quando i treni passavano da qui. I tavoli del ristorante sono riparati da pergole che poggiano sulla pensilina deserta dove, chiudendo gli occhi e liberando la fantasia, non è difficile immaginare l’arrivo di sbuffanti trenini a vapore, lievi come la materia di cui sono fatti i sogni. E’ un luogo simbolico, dove il presente è sospeso tra la decadenza e gli scomparsi fasti coloniali. Se tutto andrà bene, ci faranno un parcheggio. Ma per un mondo coloniale che scompare, un altro avanza. La ferrovia cinese tra Addis Abeba e Gibuti è stata ultimata nel 2016 dal Gruppo ferrovie della Cina e passa non lontano da qui, pur non toccando più il centro del villaggio. Per lunghi anni, nel corso della guerra dell’Ogaden, l’Etiopia non ha avuto uno sbocco al mare. Così, dopo la non riuscita impresa di ammodernamento finanziata dall'UE nei primi anni duemila, la Cina si offerse di finanziare e costruire una linea a scartamento normale, nell'ambito di un piano di costruzione di una vasta rete ferroviaria nell'Africa orientale. Oggi e ancor più in futuro i prodotti cinesi passeranno su rotaia. E la più diretta conseguenza sarà l’estinzione del commercio del sale, scavato a mani nude degli hedelè, gli scalpellini Afar, nei pressi di Ahmed Ela nel cuore della depressione Afar che molti millenni fa fu invasa dalla acque del Mar Rosso. Un mestiere durissimo, quello del cavatore di sale, praticato a mani nude unicamente con l’aiuto di bastoni e scalpelli tra le prime luci dell’alba e le prime ore del mattino. Poi, quando il sole si alza verso lo zenit, le attività si fermano per riprendere prima del tramonto, quando le temperature tornano più sopportabili. E nonostante questo è possibile lavorare solo in certe stagioni. Prima che faccia scuro, i dorsi consumati dei cammelli sono caricati con le lastre squadrate. Venti lastre, all’incirca duecento chili per cammello, decine di cammelli per carovana. Ne abbiamo individuata almeno una composta esclusivamente di montoni. Sono le “carovane del sale”, sale sporco, pieno di sedimento, grigio e marrone, destinato esclusivamente all’uso alimentare animale. I cammelli viaggiano perlopiù di notte per fermarsi a riposare all’ombra nelle ore più calde della giornata. Abbiamo incrociato le carovane scendere scariche e risalire cariche lungo il canyon di Seba. Questa gola naturale e serpeggiante, ricca d’acqua e riparata, costituisce la scorciatoia ideale per raggiungere dalle pianure di sale le montagne e l’acrocoro retrostante. L’arrivo è nei mercati di Macallè, dopo un lungo e faticoso viaggio della durata di quattro notti per 160 chilometri circa di lunghezza.

Un mondo che si rinnova

I fuochi dell'Erta Ale tra i vapori
I fuochi dell'Erta Ale tra i vapori
Notte sul cratere dell'Erta Ale
Notte sul cratere dell'Erta Ale

Esiste in Dancalia un mondo primordiale dove la Natura si rinnova continuamente. Sono i vulcani Erta Ale e Dallol. Mentre il primo sorge a poca distanza dal lago Afrera, il secondo sta nel bel mezzo del “salar” di Ahmed Ela, al centro della depressione dancala. Dal campeggio sul lago Afrera arriviamo in mezz’ora d’auto a Kosrawat, feudo di Ghilisa (o Kylisa). Le descrizioni del personaggio mi parevano esagerate, ma alla fine è stato come essere catapultato in una storia di Corto Maltese. Giunto al villaggio, vengo introdotto dopo debita anticamera presso un signore abissino d’età indefinibile, né giovane né anziano che, similmente a un satrapo orientale, giaceva placidamente sdraiato all’ombra, sulle stuoie della sua capanna, attorniato dai luogotenenti. Kylisa è il ras che comanda sulla polizia e su tutto il resto di Kosrawat. Lui è il solo a decidere chi deve accompagnarci nonché l’entità dell’obolo da versare. Tutti i gruppi che passano sul “suo” territorio, attirati dal vulcano come falene da una fiamma, devono passare di qui. Immagino che presto si stuferà d’accogliere di persona tanti stranieri e nominerà un vice per l’incombenza della gabella. Ma, per l'occasione in veste di coordinatore, sono io a sobbarcarmi l’onore e l’onere d’essere ammesso alla sua presenza. Lo saluto cordialmente, con debita deferenza (non nego d’esser stato un po’ paraculo) e in cambio mi è concesso il privilegio di sedermi nella capanna invasa dalle mosche, epicentro del potere, vero e proprio Cominform locale. Sono ben conscio che da Kylisa dipende il come e, soprattutto, il quanto della nostra salita all’Erta Ale. La speranza è che un pizzico di cordialità possa portare a un ammorbidimento tariffario. Speranza vana: business is business e la trattativa si conclude con un alleggerimento della cassa di circa 3000 birr per il permesso di transito e di salita. Spiccioli, direte, ma in Etiopia costituiscono un piccolo gruzzolo, soprattutto se ottenuto senza far nulla (non staccano mica dei biglietti, tanto per capirci). In aggiunta, ci è assegnata una scorta armata di due poliziotti: ne basterebbe uno solo, come in effetti sarà, ma ce ne fanno comunque pagare due. Dulcis in fundo, “road guide” obbligatoria (anche se i nostri autisti conoscono perfettamente la strada per esserci stati innumerevoli volte). Faccio buon viso alla “trattativa” (c’è ben poco da trattare quando non si ha il coltello dalla parte del manico), salutando il capo con un sorriso. Caricata la giovanissima guida imbocchiamo un tortuoso sterrato che serpeggia in mezzo a colate laviche recenti. 25 km e due ore di scossoni dopo arriviamo ad Abdelali, un sudicio agglomerato di capanne in pietra dove solitamente i gruppi si fermano per attendere il buio. Nonostante l’ora e il caldo, decidiamo di salire subito per ammirare il tramonto dalla cima del vulcano e fare una prima circumnavigazione della caldera alla luce del giorno. Iniziamo il trek all’una e trenta del pomeriggio, dopo un pranzo leggero. Ce lo sconsigliano, ma il caldo secco sui 35 °C risulta sopportabile, purché si cammini con lentezza e s’indossi un cappello largo. Chi ce l’ha usa un ombrellino come riparo aggiuntivo dai raggi del sole a perpendicolo. Percorriamo i nove chilometri e mezzo che separano Abdelali dal campo alto sul cratere in parte su strada e poi seguendo un largo sentiero. Impieghiamo tre ore esatte. Il dislivello in salita, assai graduale, è di 400 metri. Anche se un cammello al seguito basta e avanza, le dimensioni del nostro gruppo impongono che ne prendiamo due (600 birr l’uno), a cui dobbiamo aggiungere i costi dei cammellieri (due per due giorni) anche se le ore effettive della nostra permanenza sul vulcano risulteranno inferiori a ventiquattro. Infine, saldiamo l’uso al campo alto di tre capanne in pietra col tetto di paglia. Ahimè, le scopriremo infestate da scarafaggi. Per farla breve, “l’operazione Erta Ale” richiede 7800 birr in tutto (25 € circa a testa) tra annessi e connessi. Arriviamo al campo alto in tempo per il tramonto e, con grande sorpresa, scopriamo di essere soli. Il pallido disco solare è inghiottito dalla foschia che aleggia bassa sull’orizzonte intorno alle sei del pomeriggio: abbiamo quindi tutto il tempo per fare il periplo della caldera sommitale. La scelta si rivela felice perché riusciamo a vedere di più durante il giorno che nell’escursione notturna, complici il fumo e i vapori abbondanti come non mai, senza contare che di notte ci ritroviamo in mezzo a decine di gruppi di turisti che vagano alla cieca sul bordo del cratere come anime dannate nell’inferno dantesco. Il tramonto è magico, soprattutto perché abbiamo il vulcano tutto per noi. Quasi a darci un contentino per i disagi subiti nel corso del torrido trek, i turbinanti vapori che dall’aprile del 2018 precludono quasi del tutto la vista del lago di lava sottostante si aprono per un po’. Riusciamo a intravvedere per un attimo il fiume di lava scorrere sul fondo, contrariamente a tutti gli altri che ci raggiungono in seguito.

Le vasche naturali del Dallol
Le vasche naturali del Dallol
Concrezioni al Dallol
Concrezioni al Dallol

Dall’Erta Ale impieghiamo un giorno intero per trasferirci ad Ahmed Ela, nel cuore della depressione Afar, dove si trova il Dallol. Ancora un vulcano, penserete. Ma questo è speciale: è il luogo più marziano sulla Terra, un sito affascinante, che a mio avviso vale il viaggio in Dancalia. Una parte del fascino sta nelle sorgenti termali, risultate dell'esplosione di una camera magmatica nella valle del Rift, posta sotto un importante deposito di sale lasciato dal Mar Rosso al suo ritiro. Oggi si presenta come una piatta distesa di concrezioni multicolori gialle, arancioni, verdi. Cloruri ferrosi e ossidi si accumulano nelle pozze, ognuna delle quali ribolle attraverso minuscoli geysers fumanti, circondati da un terreno con tutte le sfumature del marrone. Nell’aria aleggia un vago odore d’idrocarburi. Passeggiando in questo paesaggio alieno, novanta metri sotto il livello del mare, che non riceve neppure 200 mm l’anno di pioggia e dove le temperature possono raggiungere i sessanta gradi, si ha l’impressione di trovarsi sul giovane Marte. Faccio attenzione a non calpestare le sottili trine di merletti calcarei, composte da evaporiti di carbonati e sali di sodio e potassio. Chissà quanti secoli ci sono voluti per la loro formazione. Non ci sono transenne né recinti, chiunque può andare dove vuole. Questa libertà comporta una responsabilità che a volte manca in noi turisti: temo arriverà presto il momento in cui spunteranno percorsi obbligati e recinti. Nonostante l’ostilità dell’ambiente, sono qui stati scoperti di recente, con il contributo di geologi italiani dell’università di Bologna, dei microrganismi estremofili che riescono a sopravvivere in ambienti che superano i 100 °C in condizioni di pH zero (super acidi) e saturi di sale. Questi microrganismi Archea dei geyser del Dallol permettono di studiare quali siano le condizioni limite per la vita sulla Terra, estendendo il concetto di abitabilità anche ad altri pianeti. Adiacente ai geyser multicolori, c’è un luogo che vale la penna di vedere per lo stesso motivo per cui ci si reca nella vecchia stazione dismessa di Auasc. E’ il villaggio fantasma degli italiani. Si notano qua e là, sullo sfondo di montagne azzurrine che si ergono oltre la pianura di sale, erosi dalla ruggine e quasi dissolti dal tempo, scheletri di camion Fiat, pezzi di binario, cisterne, una caldaia di locomotiva, una jeep, costruzioni diroccate di mattoni di sale. E’ l’insediamento della Compagnia Mineraria Coloniale, che qui ha scavato sin dal 1912. Controllata dalla Banca Italiana di Sconto, il cui principale azionista era Giovanni Agnelli, la CMC finanziò la costruzione d’insediamenti minerari nel Dallol per l'estrazione del potassio e della silvite. Il potassio, tra gli altri usi, serve anche nella preparazione degli esplosivi e per questo si può affermare che, chi riuscì a sfruttare la concessione durante la prima guerra mondiale, ottenne un buon profitto. Nel periodo coloniale italiano i depositi furono sfruttati dalla Co.Min.A., la compagnia mineraria dell’Africa orientale, il cui commercio di cloruro di potassio partiva da un piccolo porto eritreo sul Mar Rosso, Mersa Fatma. Con la fine dell’impero, gli inglesi eliminarono la ferrovia e smantellarono parte del villaggio italiano: senza l’accesso al mare, in una zona così difficile, l’estrazione mineraria risultava non profittevole e il sito andò in decadenza. La Natura è ora libera di riprendersi i suoi spazi e le vestigia industriali stanno lentamente scomparendo, rose dalla ruggine e sepolte dalle sabbie come dinosauri, come se la Terra si volesse riappropriare del Dallol, luogo inospitale e inadatto agli uomini, ma incantevole nella sua terribile bellezza.

9 Luglio 2019

Bibliografia minima

1. Jean-Bernard Carillet, Anthony Ham, Etiopia e Gibuti - Guida Lonely Planet in italiano - 5ª Edizione, gennaio 2018, pp.300 con illustrazioni a colori, 22,52 €.

2. Quaderno di viaggio d’autore, Etiopia – Centro di Documentazione “La Cultura del Viaggio” – Avventure nel Mondo - Lungotevere Testaccio, 10 - 00153 Roma.