Everest

Un sogno lungo un giorno

La nostra salita alla Dea Madre della Terra

Giuseppe sotto la cima dell'Everest 

Testo e foto di Giuseppe Pompili

L'Everest dal campo base cinese
L'Everest dal campo base cinese

Una sinfonia di pareti senza confini si apre tra davanzali di nuvole: note di cielo e di roccia su un pentagramma di ghiaccio. Sono in piedi su di un ricciolo di neve incastonato nella corona di pietra di una dea tibetana, Chomolungma, ribattezzata Everest in onore di un inglese. Poco sotto, presago di cattivo tempo, un mare di nubi sospinto da un vento lieve, risale pigramente gl’impervi versanti, cancellandoli alla mia vista. E' mattino, sono solo e mi guardo intorno, incredulo di essere finalmente arrivato in vetta, dopo una scalata durata nove ore. La giornata è luminosa, tutto appare tranquillo, solo il tempo scivola via invisibile.

Guardo dall'alto in basso il Cho Oyu, 8201 m, dalla cui cima - venti mesi or sono - miravo con un misto di desiderio e turbamento i fianchi possenti della dea madre della Terra, sognando di arrampicare i risalti verticali della cresta nord-est, inseguendone il filo a tratti sottile come la lama di un rasoio a volte ampio come un’autostrada, per giungere a respirare l’aria gelida e rarefatta di quota 8848. E' nata in quell'istante la passione segreta che mi ha condotto sin qui.

Marco, Sandra e Dowa
Marco, Sandra e Dowa

La montagna più alta di tutte non ha la simmetrica eleganza del K2 o la fama sinistra di mangiatrice d’uomini del Nanga Parbat, ma possiede il fascino unico dell'aria più sottile. La scarsità d’ossigeno moltiplica le incognite legate a pericoli quali il freddo o il cattivo tempo, costringendo alla rinuncia tre quarti degli alpinisti che officiano il rito della salita dal versante tibetano, una liturgia fatta di passi brevi e di lunghe soste per tirar fiato, sempre più lunghe le soste e brevi i passi, ciascuno dei quali si beve la volontà di proseguire.

Sull’Everest, i tempi degli Eroi nel senso antico, degli esploratori dell’ignoto, delle imprese rivoluzionarie sono finiti, forse per sempre. Ma ci sono luoghi di evoluzione nei posti più impensati: uno di questi è stata la “nostra” salita, fatta da persone comuni con la passione della montagna, che hanno scelto di salire con le proprie sole forze, anche economiche.

A volte l’unico modo di far bene le cose è farsele da soli: così è nata l’idea di una spedizione leggera alla cresta nord-est, versante tibetano, coinvolgendo altri tre amici, Adriano Dal Cin di treviso (Susegana) e i triestini Alessandra Canestri e Marco Tossutti, tutti con precedenti esperienze sugli 8000.

La preparazione

Non regala nulla, la dea madre della Terra: quest’anno, su una quarantina di ascensioni dal lato tibetano, sette alpinisti non hanno fatto ritorno a casa. La nostra spedizione si proponeva di compiere la scalata senza l’aiuto di portatori d’alta quota né di ossigeno. Tale era l’ambizioso piano su cui avevo impostato tutta la mia preparazione atletica, sotto la supervisione medica della Isokinetic di Bologna. Il primo obiettivo è stato centrato, il secondo solo in parte. In realtà, benché fossimo insieme, eravamo due spedizioni in una. Marco e Sandra (la prima italiana a salire la montagna dal lato tibetano, salvo gli ultimi 30 m, come lei stessa tiene a precisare con ammirevole onestà) hanno scelto di farsi assistere nella salita da uno sherpa, mentre Adriano e io abbiamo fatto tutto da soli.

Tende al campo 3
Tende al campo 3

Per me, ci sono voluti un anno e mezzo di allenamenti, che comprendevano un’ora quotidiana di corsa in salita, mezze maratone nel fine settimana, una 100 km del Passatore, numerose uscite di scialpinismo oltre a un trekking al campo base dell’Annapurna. Tutto questo per affrontare la montagna con un certo margine di sicurezza. Ho rinunciato all’idea di una salita completamente senza ossigeno quando alpinisti fortissimi, che erano già stati più volte in vetta, me lo hanno caldamente sconsigliato. Salire per la prima volta, da soli e senza bombole, sarebbe stato un azzardo troppo grande. L’alto grado di ipossia che s’instaura nella parte finale della salita, in sinergia col freddo intenso, favorisce infatti i congelamenti. La forte probabilità di questi ultimi mi ha spaventato. Una salita senza ossigeno supplementare riesce ad un alpinista su dieci, tra quelli che raggiungono la vetta, che sono una minuscola frazione di quelli che ci provano. Inoltre occorrerebbe salire con almeno una bombola d’emergenza e, possibilmente, non da soli. Così ha fatto l’esigua schiera di professionisti che sinora si è cimentata nell’impresa. Per ironia della sorte ho sperimentato ugualmente gli effetti di una salita con poco ossigeno. L’allenamento si è allora rivelato decisivo, perché mi ha permesso di proseguire senza troppi problemi, seppur avanzando lentamente, come si vedrà più oltre.

Le scelte

Per il grande pubblico, l’Everest è semplicemente una montagna difficile da scalare, poco importa in che modo e da che parte. Ma ci sono tanti Everest, ciascuno diverso dagli altri. Si può tentare con o senza portatori, con e senza ossigeno, da una via piuttosto che da un’altra o magari appoggiandosi a una grossa spedizione che ti garantisce la vetta in cambio della “modica” somma di almeno 35.000 dollari (contro i 9.000 che, mediamente, abbiamo speso noi). In un panorama in cui la quasi totalità delle spedizioni, commerciali e non, fa largo impiego di sherpa d’alta quota che adempiono al gravoso incarico

In arrampicata sul 2° step, 8650 m
In arrampicata sul 2° step
8650 m

di attrezzare i campi alti trasportando su e giù per la montagna ogni genere di materiali, è ormai rarissimo incontrare alpinisti disposti a fare altrettanto. A fine aprile Adriano ed io ci siamo trovati al colle nord, ad oltre 7000 m di quota, unici occidentali a spalar neve per ricavare una piazzola per la nostra tenda, assieme ad una ventina di sherpa che facevano altrettanto. Nessun altro. Con questa scelta abbiamo reso più impegnativa la nostra prova, portando su da soli tutto il materiale, fatto che ha implicato cinque viaggi di andata e ritorno tra il campo base avanzato a 6400 m e il campo 1, situato al colle nord a 7066 m, senza contare gli ulteriori passaggi da quest’ultimo al campo 2 e dal 2 al 3. Non avevo previsto che sarebbe stato così laborioso oltre che faticoso.

Davanti al dato statistico degli oltre mille e cinquecento salitori a contare dalla prima storica ascensione del 29 maggio 1953, tre quarti dei quali dal Nepal (via più semplice, mai banale, perché sull’Everest nulla è facile) c’è ampio margine per i distinguo. Si spazia dall’opinione di chi, in risposta all’inquinamento e ai numerosi incidenti mortali, assume posizioni oltranziste arrivando a suggerire come rimedio estremo la chiusura al pubblico delle

La cresta nord est sopra il 2° step
La cresta nord est sopra il 2° step

grandi montagne (e tra costoro spesso si annoverano grandi nomi, che su queste montagne hanno costruito le loro fortune) all’atteggiamento spensierato delle autorità locali, che vedono nell’incremento dei permessi di salita solo una fonte aggiuntiva di guadagno e di sviluppo, per tacere delle spedizioni commerciali. Tra questi estremi, che toccano tematiche di non facile soluzione, la nostra posizione è stata quella di organizzare una spedizione leggera, la meno invadente e la più rispettosa possibile di certe tradizioni di montagna. Siamo saliti in autonomia, senza inquinare e lasciar tracce. Abbiamo riportato a valle tutte le bombole usate e i materiali, raccogliendo gli escrementi al campo base entro un apposito bidone. Se i rifugi alpini italiani facessero altrettanto, sarebbe già un notevole passo avanti.

La salita

Il tre, numero perfetto, ci ha portato fortuna: tre campi alti sono stati necessari per arrivare in vetta attraverso i tre step in tre giornate diverse. Marco e Sandra sono giunti in cima il 18 maggio assieme al loro sherpa Dawa, il giorno seguente è toccato al sottoscritto. Il 20 è salito Adriano. Lui e io avremmo

Il campo 1 al colle nord
Il campo 1 al colle nord

dovuto partire insieme a mezzanotte dal campo 3 alto 8300 metri, ma Adriano ha avuto subito problemi con la bombola d’ossigeno, circostanza che lo ha costretto a rinviare l’attacco alla notte successiva e a trascorrere ben due notti al c3 prima di partire a propria volta. Da parte mia, l’erogatore di marca russa, acquistato di seconda mano a Kathmandu, si è bloccato poco dopo la partenza dal campo 3. Al campo base, durante i test pre-salita, tutto era sembrato filare a dovere, però il gelo dei campi alti può causare malfunzionamenti. Un UL’ccato a metàflusso dimezzato mi ha permesso di avanzare a velocità ridotta, tanto che il gruppetto di alpinisti partiti poco prima mi ha presto staccato e sono rimasto solo. Mentre procedevo alla luce della lampada frontale, mi facevo coraggio dicendomi che avrei proseguito sin dove mi fosse stato possibile e a condizione di sentirmi bene. Orologio alla mano, andavo su confortato dalla sicurezza che in ogni momento avrei potuto voltarmi indietro e scendere, anche in mancanza di ossigeno (cosa che ho poi fatto in discesa). Così avanzavo nel buio della notte, dopo aver perso di vista gli altri che quel giorno mi hanno preceduto in vetta. Ne ho ripreso la maggior parte verso l’alba, al secondo step, un muro strapiombante alto una quindicina di metri posto sulla cresta nord a 8650 m di quota, dove si era formata una piccola fila. E’ considerata la difficoltà tecnica maggiore della via. Superato l’ostacolo, dopo mezz’ora

Panorama dalla cima
Panorama dalla cima

di attesa per il mio turno, sono giunto in cima alle 9:30 e mi sono concesso il lusso di rimanervi un’ora intera, togliendomi per un po’ il respiratore e per alcuni istanti gli occhiali per fotografare. Subito dopo aver iniziato la discesa, un mare di nubi si è chiuso come una morsa intorno alla montagna, lasciandomi immerso nella nebbia al disotto del secondo step. Il paretone nord-ovest dell’Everest è enorme e, in mancanza di visibilità, è sin troppo facile perdere l’orientamento. Il tratto di cresta da scendere per tornare al c3 ha uno sviluppo di circa 2,5 km, interrotto da tre salti verticali (i famosi “step”) che si scendono in corda doppia, e che rendono la discesa impegnativa e relativamente lenta. Poco dopo è iniziato a nevicare…

Giuseppe Pompili in vetta
Giuseppe Pompili in vetta

Un nevischio leggero e impalpabile cancellava ogni traccia e ricopriva le corde. L’euforia per il successo ha subito lasciato posto a una moderata preoccupazione che mi ha lasciato solo quando, all’una e trenta del pomeriggio, ho finalmente raggiunto la relativa sicurezza del campo 3, dove mi sono buttato in tenda e ho dormito come un sasso per quattordici ore filate. Il mattino seguente nevicava: nessuna traccia di Adriano, che era partito alle 23 mentre io riposavo. Alle nove di mattina del 20 maggio sono sceso dal campo 3 al campo 2, perché sostare più di due giorni quasi 1000 metri al di sopra della cosiddetta quota della morte, specialmente dopo esser stati in cima, non è consigliabile. Avevo con me una radio, ma non sono riuscito a comunicare col campo base perché laggiù si erano scaricate le pile e nessuno aveva pensato a sostituirle. Così, un ineffabile giornalista del Corriere al seguito della megaspedizione italiana Everest-K2 ci ha dato per dispersi (“disperso” sull’Everest è un eufemismo per non dire morto). La notizia è rimbalzata in Italia e ha fatto preoccupare non poco amici e conoscenti. In particolare è stato fatto il nome di Adriano, senza preoccuparsi troppo di verificare, procurando ai suoi familiari momenti terribili. Il vero annuncio, vale a dire che noi tutti eravamo saliti in cima (solo Sandra si è fermata a meno di trenta metri dalla vetta) non è mai stato dato.

La dea madre ci sorride

Tutti al ritorno all'abc
Tutti al ritorno all'abc

Oggi, al ritorno a casa, immerso nell’afa di un’estate padana, ripenso con nostalgia alle albe gelide, alla pasta stracotta, al topo Mickey e ai nostri salami rosicchiati. Persino ai disagi di un mese senza lavarsi alla quota di 6400 m e al ghiaccio in tenda, alla ninna nanna dei campanacci degli yak che non ti lasciavano dormire e alle apparizioni spettrali dei cadaveri congelati incontrati lungo la via. Per noi tutti è stata una grande avventura, un’esperienza forte, che è un privilegio vivere. Due mesi che ci hanno lasciato un marchio nell'anima. E che risorgeranno come miraggi sui deserti della vita per poi dissolversi in essi. Lentamente, però, e con dolcezza.

Bibliografia

  1. Andy Fanshawe, Stephen Venables - Himalaya in stile alpino - Gli itinerari più affascinanti sulle cime più alte - Copyright 1995, 1ª Edizione Italiana ottobre 1996, Vallardi Editori pp.192, £ 45.000
  2. Richard Sale &John Cleare - On the top of the world - Climbing the world's 14 highest mountains - HarperCollins Publishers, 1ª Edizione Inglese 2000. pp.228 $ 16,5. Peter Gillmann Everest - Vallardi I.G. 1ª Edizione Inglese 1993. pp.210 € 30.
  3. Roberto Mantovani - Everest - La storia del gigante Himalayano - White Star S.r.l. Vercelli. 146 pp. € 32.
  4. Walt Unsworth - Everest - Mursia Editore 1991. Biblioteca della montagna n°7 696 pp. £ 80.000.
  5. Reinhold Messner - Everest - Istituto Geografico De agostini Novara 1979.255 pp. £ 20.000.

Links

  1. http://www.mounteverest.net
  2. http://www.everestnews.com/
  3. http://www.adventurestats.com/pages/tables.htm
  4. http://www.paesieimmagini.it