Giappone

 

L'ultima fermata prima della Luna

Appunti di viaggio in Giappone

Tokyo by night

 

Testo e foto di Giuseppe Pompili

 

Modernizzato ma assai poco occidentalizzato, ricco e potente ma anche fragile e in crisi d’identità, formale e impenetrabile, postmoderno quanto basta per essere inquietante: non esistono aggettivi capaci di cogliere in poche battute l’essenza del Giappone. A cadere per primi sono una quantità di stereotipi, echi distorti di un paese lontano e diverso. Perché tutto il resto del mondo è a ovest del Giappone e andare oltre significherebbe uscirne, oppure ritornare al punto di partenza. Nell’ideogramma kanji che dà nome al paese compare il simbolo del sole, l’alba del nuovo giorno salutata per antica tradizione dall’altoIl castello di Karasu-jo (castello del corvo) a Matsumoto della montagna sacra, il Fuji-san, accanto all’ideogramma della radice. Il paese del sollevante è quindi, per definizione, la sorgente del sole. Se è vero che non occorre un lungo soggiorno per rendersi conto di come la cultura nipponica sia profondamente diversa da ogni altra e di quanto i giapponesi ne vadano sottilmente fieri, ci si imbatte presto nella difficoltà, formidabile per uno straniero, un gaijin, di destreggiarsi nel groviglio di convenzioni e codici non scritti. E’ questa una delle tante eccentricità di un paese in cui, prima di tutto, i rapporti fra le persone possono svilupparsi senza incidenti soltanto se restano sul filo di un cerimoniale molto preciso. Afferrare su quali alchimie si fonda tale rituale, la cui essenza può sfuggire a una vita di ricerche, richiede forse l’abbandono della logica classica per affidarsi ad altro. Occorre abbracciare l'idea, centrale nel buddismo zen, che il superamento del paradosso (esemplificato dal celebre koan zen "qual è il suono di una sola mano?"), quando giunge, arriva attraverso un lampo d’intuizione extra-logico. Così, una collezione d’osservazioni contrastanti sul Giappone, riconcilia l'inconciliabile solo se decidiamo di accettarle senza la pretesa di trovare spiegazioni esaurienti. Perché, nel momento in cui tutto avrà trovato un ordine e sarà stato debitamente catalogato nella nostra mente, le differenze uniformate nel prevedibile quotidiano, nulla apparirà più degno di nota. Allora sarà troppo tardi. Avremo cominciato a non vedere ciò che vediamo. Italo Calvino scriveva che viaggiare non serve molto a capire, serve piuttosto a riattivare l’uso degli occhi, la lettura visiva del mondo.

 

Il principale cardine sociale del Giappone è il conformismo più spinto alle regole, sia nella scrittura che nelle consuetudini. In occidente, il traguardo verso cui tende ogni progetto è il risultato e le regole ne costituiscono solo la cornice, mentre per i giapponesi è il rispetto della forma a modellare un’unità con la realizzazione medesima. Fare qualcosa nel modo giusto porterà alla fine a farla anche nel modo migliore. Si pensi alla cerimonia dello scambio dei biglietti da visita, che è l’indispensabile preliminare per dosare la profondità dell’inchino. Un minuscolo cartoncino come il «voi siete qui» sulla pianta del metrò, bussola su cui leggere la giusta direzione per impostare ogni futuro rapporto, mantenendo consapevolezza e controllo sulle convenzioni sociali. Perfetto esempio di come le distanze invisibili siano in Giappone più forti di quelle visibili e abissi nascosti s’interpongano tra le persone. Oppure al gusto eccellente e alla cura profusa nella presentazione di cibi e oggetti, spesso di sconcertante semplicità e modestia rispetto Cocomero a Ginza all’importanza del contenitore. Oppure ancora alla determinazione con cui sono praticati sport d’importazione, come il golf o il baseball, costanza a cui non sembra sempre corrispondere una pari abilità nel gesto atletico. L'incongruità è esaltata dalla perfezione degli accessori sportivi e dal nitore formale delle divise, quasi che a trovarsi in tanti nella medesima situazione possa salvare le apparenze, come bastasse acquistare il miglior equipaggiamento d’alta quota per essere in grado di scalare l’Everest. Nella vecchia Europa sarebbe considerato eccessivo, quasi una presa in giro, il comportamento di quell’autista d'autobus o controllore di treno che ringraziasse singolarmente ogni passeggero che scende o sale. In Giappone invece, la condivisione delle regole, unita alla massima serietà e convinzione nell’applicarle, rende perfettamente normali e accettati comportamenti improbabili o bizzarri ai nostri occhi. Non si comprenderebbe altrimenti perché la gente s'inchina anche al cospetto di un bancomat. Una grande virtù degli orientali in genere, e dei giapponesi in particolare, è l’arte di sapersi adattare a ogni forma, come l’acqua, di sapersi piegare dolcemente senza spezzarsi, come il giunco. “Chi non desidera non può fallire, chi non vince mai perderà”. Sono massime la cui pratica costituiva parte integrante della filosofia dei samurai, ancor oggi validissime per una momentanea fuga dalla prigione di un’esistenza scandita dai precetti, l'evasione rituale come riparo dal caos. Memorabile la gara a chi urla più forte che si svolge annualmente nei pressi di una stazione della metropolitana di Tokyo. Questa volta ha vinto uno Look appariscente a Tokyostudente che ha gridato alla folla assiepata ad ascoltarlo con tutta la forza dei suoi 24 anni e la potenza liberatoria di ben 120 decibel: «Imbecilli…». E’ stato scritto che Tokyo non è un’unica città, ma un insieme discreto di quartieri uniti dalla linea circolare della metropolitana JR, la linea Yamanote: 29 stazioni unite dalle traversine dei binari come perle di una collana, altrettante porte d’accesso a città diverse, ciascuna dotata di una distinta personalità. Akhiabara, ovvero la città elettrica, tempio della tecnologia hi-fi e dei computer; Ueno o la cittadella dei musei Look appariscente a Tokyoe dei parchi; Tokyo o il Palazzo Imperiale; Ginza o lo shopping di lusso; Roppongi o la vita notturna; Shinjuku ovvero i più grandi magazzini del mondo, unitamente, dal lato opposto della stazione, al quartiere a luci rosse dove la yakuza manifesta la propria solida tangibilità attraverso enormi Mercedes nere irte d’antenne e finestrini oscurati. Ma è a Shibuya che bisogna scendere per dare uno sguardo agli ultimissimi trend giovanili. Appena fuori dalla stazione amano incontrarsi le kogyaru, vivaci ragazzine dai 15 ai 20 anni in cerca di un look particolare in grado di distinguerle da altre appartenenti alle numerose tribù urbane che popolano l’ordinatissima capitale. Mentre le yamamba si aggirano abbronzatissime, riconoscibili dai capelli tinti di bianco che conferiscono loro un aspetto spettrale, le kogyaru si esibiscono su zatteroni, stivali o zeppe alte come trampoli, indossando costumi sgargianti all’insegna del fluorescente. E’ il manifesto di una generazione che grida per immagini la propria identità contro il rumore di fondo dell’omologazione comunitaria. E’ anche un mezzo, forse naïf, per rispondere agli otaki, ai giapponesi stanchi, figli di un consumismo malato che colleziona videofonini e biancheria intima femminile usata, drogati di fumetti manga, d’immagini, d’ordinarie storie d’amore e di violenza, di brandelli di vita di carta in grado di dare una momentanea consistenza all’illusione di esistere. Consumo e lavoro ergo sono.

L’arte dei giardini zen

L’arte giapponese è squisitamente decorativa, all’opposto di quella celebrativa o monumentale così radicata nella nostra cultura. Ciò spiega perché sia rimasto così poco d’interi secoli di produzione. E’ un’arte deperibile per definizione, legata al quotidiano, i cui prodotti, per quanto mirabili, sono destinati a svanire. Che si tratti di elaborati kimono di seta o di leggere vestaglie di cotone, le yukata, di scatole laccate o di spade intarsiate, tutta la produzione artistica giapponese sembra fatta di proposito per non durare, un monito sulla transitorietà delle cose. I templi shinto sono per antica consuetudine ricostruiti in legno ogni venti anni. Ciò che si conserva è l’essenza, il kami, lo spirito che si reincarna in un contenitore rinnovato, tutto il resto deve perire per poi rinascere. In poche altre culture si è registrata una commistione così completa tra un culto preesistente, quello scintoista, e il buddismo importato dalla Cina nel XII secolo. Ciascuno conserva intatta la propria identità, riuscendo a completarsi con l’altro. Del primo sopravviveNel giardino zen di Nanzen-ji potente il culto della natura, del secondo la promessa nella rinascita. Tra le disparate forme d’arte giapponesi, la più appariscente e durevole è senz’altro quella dei giardini, un’arte a quattro dimensioni votata alla miniaturizzazione del paesaggio secondo i canoni dell’estetica giapponese, in base a cui tutto ciò che è piccolo è anche carino e grazioso. Il giardino è perfetto se riunisce in sé tutti e sei gli attributi dell’artificiosità, dell’antichità, della spaziosità, dell’abbondanza d’acqua, dell’ampia prospettiva e del quieto isolamento. Il giardino, ridotto nelle dimensioni fisiche e ampliato in quelle spirituali, è pensato come un ologramma, che riflette in ogni singola parte, fin nei più insignificanti dettagli, la complessità dell’intero. Per i giapponesi, la perfezione è la sommatoria di tanti, minutissimi, dettagli e l’enorme lavoro soggiacente è perfetto tanto più appare invisibile. I più sorprendenti giardini giapponesi sono di obbedienza zen. Sono i giardini di pietra, ideati da asceti o edonisti che hanno codificato e portato alla perfezione canoni e forme una volta per tutte, in un periodo intorno al XV secolo. Come nel teatro no e nella cerimonia del tè, il processo di astrazione e sottrazione è portato alle estreme conseguenze. E’ il trionfo dell’arte minimalista, inventata con secoli d’anticipo sull’occidente. Non c’è più vegetazione, il colore verde scompare, cancellato dai chiaroscuri di rocce variamente disposte, come nel “giardino” di Nanzen-ji a Kyoto, un mare di nulla concepito per focalizzare l’attenzione sul concetto di vuoto, dove il tempo si ferma. E’ l’osservatore a interpretare il proprio paesaggio, a sognare con la fantasia di arcipelaghi immaginari, unici e irripetibili. In questo senso il giardino di pietra, il giardino che non esiste, è anche il giardino perfetto, perché riesce a interpretare tutti i giardini, e nessuno, essendo già dentro di noi.

Le sorgenti del piacere

Fra le numerose istituzioni che la cultura giapponese mette a disposizione di chi intende elevarsi e raggiungere l’equilibrio psicofisico, la più sacra è senza dubbio quella del bagno nelle sorgenti calde, conosciute come onsen, rotemburo se si trovano all’aperto. Il Giappone è un arcipelago vulcanico fessurato da faglie e costellato di vulcani, ricco di vapore e sorgenti termali, che abbondano ovunque. A Kyushu, la grande isola meridionale, sono nate grandi città costruite sopra ai luoghi dove il vapore sgorgaUmi Jigoku (Aquamarine Hell) a Beppu isola di Kyushu naturalmente dal sottosuolo prendendo l’aspetto di sorgenti d’acqua bollente color rosso sangue, azzurro acquamarina o bianco latteo, con profumi che coprono tutta la gamma degli odori, dagli aromi floreali a quello delle uova marce. Sono gli inferni, o jigoku. Molti appassionati hanno sviluppato una dipendenza e che li porta ad andare da un onsen all’altro, da un pozza d’acqua surriscaldata alla successiva. Sono congegni meravigliosi per purificare il corpo e l’anima dallo stress. Questo passatempo riscuote un tale successo che molte case private e alberghi sono dotate di onsen interni, in cui tutti possono divertirsi a cuocere in ammollo. C’è chi sostiene che per capire i giapponesi un buon metodo è fare il bagno insieme a loro. Diventare un “polpo bollito” è un’opportunità unica per cogliere un importante aspetto della natura, dell’anima segreta del misterioso popolo giapponese. All’interno dell’onsen, riaffiora l’egualitarismo delle origini sopra ad ogni distinzione di classe e titolo, di soldi e potere, che sono lasciati fuori accanto ai vestiti. Tutto facile, quindi? Nemmeno per idea! Non è così Chinoike Jigoku (Blood Pool Hell) a Beppu, isola di Kyushusemplice, per un gaijin, un barbaro straniero, attenersi al protocollo che regola anche questa affascinante pratica. Prima di immergersi si è tenuti a lavarsi, sfregarsi e sciacquarsi accuratamente, in modo da non lasciare addosso la più piccola, insignificante, molecola di sporcizia o di sapone (questo perché l’acqua minerale bollente dell’onsen non va sprecata buttandola via dopo un bagno, ma si conserva per gli ospiti successivi). Il bagno si fa nudi, nella stessa vasca e in compagnia di parecchie altre persone, uomini e donne. Noi abbiamo scelto il più rassicurante onsen familiare, che permette l’accesso privato a orari ben precisi, ferme restando le altre prescrizioni. Eravamo pulitissimi, ogni particella di sapone sciacquata via. Dentro, lastre di pietra consumate e vapore che saliva in volute dalla superficie della vasca. Il bagno era continuamente riempito da un rivolo d’acqua bollente che sgorgava da un vecchio tubo. Mi sono immerso con cautela, un dito dopo l’altro, nel bagno vaporoso, verificando che l’acqua era calda ma sopportabile. Completamente distesi, abbandonati, galleggiando con gli occhi chiusi, cullati dal calore e massaggiati dal tocco morbido dell’acqua corrente, gli attimi si allungano sino a diventare eternità. Una volta usciti dalla vasca, indossata la leggera yukata e sdraiati sui freschi tatami per smaltire il calore accumulato, è facile credere di esser passati, come Dante, dall’inferno al paradiso.

Pachinko

A Beppu, piccola Las Vegas di Kyushu, ci sono, come in molte altre città del Giappone, casinò multipiano interamente dedicati a un’attività che muove annualmente un giro d’affari di 46 miliardi di Euro, quattro volte la Legge Finanziaria italiana. A differenza delle nostre sale giochi, i flipper sono tutti verticali, identiciUna sala di Pachinko a Beppu, isola di Kyushu e disposti in lunghe file parallele. Sono i pachinko, pirotecnici biliardini che popolano ogni angolo del paese. Le sale sono un tripudio di vividi colori al neon e lampadine colorate, che fanno a gara peraggressività con le frastornanti melodie sparate a tutto volume. Immersi in questo inferno colorato ci sono i giocatori, che osservano rapiti la traiettoria delle biglie di metallo dorato, incuranti di tutto quanto li circonda, chiusi entro confini invisibili a esercitare un aleatorio controllo su palline mosse dal caos. Forse è uno dei tanti aspetti in cui s’incarna l’umana follia, forse è solo una valvola di sfogo per rilassarsi, una consuetudine in sostanza analoga a quella dei vacanzieri nostrani che perpetuano ogni estate il rito di cuocersi al sole in spiaggia. A milioni. In perfetta solitudine.

 

Non si può neppure immaginare di esaurire la complessità del Giappone, fatta di mille stranezze e contraddizioni, con un semplice racconto di viaggio, e neppure con dieci o con cento. E’ un paese che per molti aspetti precorre i tempi, detta tendenze, un laboratorio aperto sul futuro. Forse non esattamente il nostro futuro. Non sempre ci è piaciuto quello che abbiamo visto. I grandi centri commerciali hanno sostituito le piazze. Lo smodato consumo d’immagini, di manga, pare il riflesso di una povertà culturale diffusa, celata dall’uso massiccio di una tecnologia che s’incarna in videofonini dell’ultima generazione e in ubiquitari megaschermi. E poi ci sono gli hostess bar, i lottatori di sumo, la “grammatica dell’inchino”, la religione della cortesia, la cucina tradizionale a base di sukiyaki, soba, yakitori, le “signorine” russe di Roppongi, l’intrico dei cavi elettrici cittadini che, quanto a disordine e pericolosità, non trova eguali neppure in India. I milioni di casupole di legno dove vive la maggior parte della popolazione. Le infrastrutture pubbliche all’avanguardia. L’igiene formale e il fumo degli scarichi ad altezza d’uomo. I barboni per le strade, numerosi e invisibili perché non mendicano, perfettamente omologati perché vestono in giacca e cravatta, ma con l’imperdonabile difetto di aver perso il posto di lavoro e, di conseguenza, il loro ruolo nella società. Mi ha stupito il museo cittadino di Kyoto che proponeva una retrospettiva su Guerre Stellari, la saga di George Lucas, piuttosto che sugli aidoru, i nuovi golem virtuali. Mi hanno colpito le mostre eclettiche nei depato (dall’inglese department store, grandi magazzini) di Tokyo, tanto quanto gli sconti dell’ultimo minuto sui generi alimentari invenduti, perché tutti i cibi deperibili devono essere smaltiti in giornata. I vini e i formaggi stranieri esposti in boutique di lusso piuttosto che al banco. Ma ci sono pure tantissimi hyaku yen, hard discount dove si vende di tutto a 100 yen, perché non tutti i giapponesi sono milionari. Sono rimasto affascinato dalla magia e dall’aspra solitudine delle Alpi giapponesi, dal circuito degli 88 luoghi sacri dell’isola di Shikoku e dall’ascensione al Fuji che, al pari di un pellegrinaggio alla Mecca, è quasi un dovere per ogni giapponese una volta nella vita. Dal fatto che ci si sposa shinto e si muore buddisti, dal barocco delirante dei templi degli shogun, immersi in secolari boschi di cedri che fanno da contraltare alla speculazione edilizia che ha da tempo rubato le spiagge ai giapponesi. Tutto questo ha poco a che vedere con la Luna, ma certamente in Giappone, terra dalle tante anime, c’è posto anche per i marziani.

agosto 2003

Bibliografia

  1. Renata Pisu - Alle radici del sole - Sperling & Kupfer Editori - Milano. 1ª Edizione ottobre '00. pp.186 13,69 €.
  2. Louis Frédéric - La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai - BUR Rizzoli Editori - Milano. 1ª Edizione gennaio '87. pp.257 8,27 €.
  3. Fosco Maraini - Ore Giapponesi - Ultima edizione Corbaccio 2000 pp. 518. 33,57 €.
  4. Marco Invernizzi - Mollo tutto e ... vado in Giappone sulla via del bonsai - Mursia Editore Milano pp.168 12,50 €.
  5. Marguerite Yourcenar - Il giro della prigione - Bompiani - Milano pp 182
  6. Italo Calvino - Collezione di sabbia - Oscar Mondadori, pp.246. 12.000 £