Bolivia

Le Miniere di Potosì

Viaggio all'inferno (e ritorno)

Testo di Giuseppe Pompili

"Sono l'antica Potosì
Il tesoro del mondo
e l'invidia dei re"

La Bolivia è il Tibet delle Americhe. Ne condivide l’altezza, gli altipiani desolati e le medesime facce cotte dal sole degli abitanti. Tra i volti della Bolivia, da quello impenetrabile della selva amazzonica ai bianchi deserti dei salares, dai vulcani incappucciati di ghiaccio alle lagune più remote, è quello della città di Potosì a colpire maggiormente per una sorta di paradosso temporale dell’era tecnologica.

 

Potosì è comparsa dal nulla ai piedi di Cerro Rico, agli albori dell’epoca coloniale, in seguito alla scoperta accidentale di ricchi filoni d’argento celati nelle profondità della montagna. L’arido picco, che domina isolato una zona inospitale dell’altipiano 450 km a sud-est di Nuestra Señora de La Paz, ha una forma vagamente conica ed è alto quasi 5000 metri. Un tempo Potosì era tra le città più popolose del mondo, diretta conseguenza dell’attività estrattiva del prezioso metallo. La zecca reale e le chiese in stile barocco-mestizo, tanto incongrue quanto affascinanti, tradiscono i fasti di un passato di splendore e follia. Le ricchezze strappate alla terra con l’espropriazione della carne altrui hanno arricchito per generazioni i regni e le dinastie in Europa. Per tre secoli i lingotti d’argento dell’Alto Perù, l’attuale Bolivia, hanno finanziato tanto le casse della corona spagnola quanto le tasche dei pirati inglesi, olandesi e francesi. Ne facevano le spese i galeoni diretti in Spagna lungo le rotte che da Callao passavano attraverso lo stretto di Magellano, risalendo verso il Mar delle Antille. Ma vi era anche un lucroso traffico in senso opposto: dalla Costa d’Avorio gli schiavi erano deportati in Alto Perù con un viaggio spaventevole che mieteva fino al venti per cento di vittime. I sopravvissuti non avevano di che rallegrarsi: giunti a Potosì erano sottoposti alla Ley de la Mita. Questa legge, istituita ad hoc dal viceré Toledo, obbligava gli indios e gli schiavi di colore sopra i diciotto anni d’età al lavoro forzato nelle miniere d’argento. I mitayos erano segregati sotto terra per quattro mesi senza che fosse loro concesso uscire alla luce del sole, costretti a lavorare in massacranti turni di dodici ore entro cunicoli privi d’aria, a contatto con ogni sorta d’effluvi velenosi. La mortalità era elevatissima ma la legge era congegnata in modo tale che gli oneri dovuti al sostentamento dei minatori superavano il magro salario elargito, innescando così una spirale di debiti che erano ripagati con nuovo lavoro, a vita. Vita che, mediamente, superava di poco un anno a causa delle bestiali condizioni di lavoro, degli incidenti e della silicosi. Le gallerie sono pervase da un cocktail micidiale d’aria rarefatta mescolata a gas tossici. All’interno dei pozzi, inoltre, si registrano temperature che da sotto zero, in prossimità della superficie, giungono a superare i quarantacinque gradi dei livelli più profondi. Si calcola che, nei tre secoli di sfruttamento intensivo, le miniere d’argento di Cerro Rico abbiano causato la morte di otto milioni di schiavi indios e africani.

 

Questa premessa aiuta a capire come sia nata Potosì, e su quali fondamenta abbia raggiunto l’apogeo intorno al XVII secolo. Potosì resta una delle roccaforti dove il passato, camuffandosi con la modernità, è riuscito a sopravvivere sino ad oggi e da dove certamente riuscirà a varcare indisturbato la soglia del terzo millennio, convivendo al fianco di Internet nell’era della globalizzazione. Gli idoli del nostro tempo, che di volta in volta prendono il nome di liberalizzazione, concorrenza e mercato, sembrano essere riusciti a reintrodurre in modo perverso le antiche usanze. Il paradosso si fonda su di un metodo di lavoro profondamente arcaico, che riproduce i ritmi massacranti imposti dai conquistadores.

 

Allo sfruttamento dell’argento, ora quasi abbandonato perché antieconomico, si è sostituito quello dello stagno. Alla grande miniera statale di Pailaviri, chiusa a causa degli alti oneri che comporterebbe il rinnovo delle infrastrutture, si sono sostituite le cooperative di minatori. Questi ultimi scavano a mani nude i cunicoli tortuosi sotto la crosta di fango della montagna così come facevano i loro antenati durante il periodo coloniale. Oggi l’unico vero padrone è il mercato, in altre parole la legge della domanda e dell’offerta. A chi acquista il minerale di stagno direttamente dai minatori, pagandolo a peso, è indifferente sapere come è stato estratto: se con unghie e denti, se con picconi e carriole oppure impiegando moderni mezzi di scavo e nastri trasportatori.

 

Non sempre un’esperienza deve essere gradevole, visivamente gratificante, psicologicamente rassicurante per meravigliare e indurre alla riflessione. La visita in una delle miniere auto gestite di Cerro Rico costituisce un’esperienza unica, perché è davvero infernale lo scenario che si para dinanzi oltre la soglia. Pochi passi oltre l’ingresso e le tenebre compatte avvolgono ogni cosa. L’unica fonte d’illuminazione è data dalla flebile luce delle lampade a carburo fissate sul casco, preferite alle torce elettriche perché in grado di segnalare, cambiando colore, la presenza di sacche velenose di monossido di carbonio. Piccoli uomini ingobbiti e scuri sfrecciano silenziosi attraverso le buie gallerie, alte meno di un metro e prive di travi di sostegno, scavate nella roccia. Le viscere della miniera assomigliano all’interno di un formicaio, dove nell’intrico di cunicoli e di pozzi gli operai si muovono sicuri, spingendo innanzi le carriole colme oppure trasportando a spalle, nei punti più stretti e ripidi, i sacchi di minerale. La produzione giornaliera di un minatore, estratta con l’aiuto del piccone e della dinamite, è di circa duecento carriole. Non vi sono orari di lavoro prestabiliti perché i minatori lavorano in proprio e chi più produce più guadagna.

 

I lineamenti bruni degli indios quechua sono deformati dal perenne bolo di foglie di coca che anestetizza la gola e ottunde i sensi. I minatori ti accolgono dapprima con indifferenza ma è sufficiente un piccolo regalo, consistente in una manciata di foglie di coca, un sorso d’acquavite o semplicemente un candelotto di dinamite, per farsi accettare, sia pure per l’effimera durata di una visita. L’età minima per lavorare, ci dicono, è di quattordici anni ed il mestiere è custodito gelosamente e tramandato di padre in figlio. Nessuna misura di sicurezza, nessun piano d’emergenza. Le miniere private non hanno neppure la pianta delle gallerie. Sono un vero e proprio labirinto tridimensionale conservato unicamente nella memoria dei minatori anziani. Alcuni pozzi sono così stretti che per scendere occorre farvisi calare dall’alto. Escludendo la claustrofobia e la paura di un crollo resta il rischio di soffocare nel malaugurato caso in cui dovesse interrompersi il flusso dell’aria compressa di aerazione.

 

La presenza in ogni miniera di Cerro Rico d’immagini inquietanti, di figurine di terracotta del diavolo, Tio, lo Zio, rappresentato nell’atto di masticare coca, non sono concepite dai minatori per terrorizzare, ma semmai per abituarsi a convivere con esse perché sono parte della vita sotterranea, il materializzarsi di paure inconsce. E respingerle potrebbe scatenarne il potenziale di sovrumana pericolosità. E’ un esorcismo con protagonisti la Carne, la Morte e il Diavolo, come nella tragicommedia messa in scena compiutamente da Albrecht Durer. Alla statuina si offrono sigarette e alcool puro, gesti semplici che riassumono meglio di ogni parola la necessità di evasione dei minatori dalla loro dura vita di lavoro. La speranza d’imbattersi in una vena di minerale ricca quanto basta da poter risolvere per sempre le difficoltà del vivere resta un miraggio, come per noi sarebbe un bel tredici al totocalcio, ma è un’illusione che fa tirare avanti.

 

La presa di coscienza dell’esistenza di un’umanità che lavora in condizioni disumane non trova sollievo al pensiero che oggi la scelta sia volontaria. I mitayos erano schiavi e non avevano alternative ma fino a che punto i minatori di Potosì sono liberi di modificare la propria vita? Fino a che punto, in fondo, lo siamo noi? La differenza è che noi turisti, in ogni caso, abbiamo sempre in tasca il biglietto di andata e ritorno.

Novembre 1997

Bibliografia

  1. Deanna Swaney, Bolivia - a Lonely Planet travel survival kit - Australia 1996 - 3ª Edizione, novembre 1996, pp.490 con foto a colori, 48.000 £. Guida in lingua inglese della Lonely Planet.
  2. Ernesto Che Guevara, Latinoamericana Universale Economica Feltrinelli - Milano - 8ª Edizione, ottobre 1995, pp.130 10.000 £.

CD consigliati

  1. Awatiñas, Bolivia– INBOFON LTDA. La Paz 1993. 80 Bs.
  2. Kjarkas,Por siempre INBOFON LTDA. La Paz 1997. 80 Bs.