Siria

In viaggio con Sandra

ovvero le disavventure siriane di un povero serpente

Testo di Giuseppe Pompili

Proemio

Le disavventure dei serpenti ebbero inizio nella notte dei tempi, tant'è vero che Dio disse: "Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche" Genesi III,14. Ma è soprattutto nei confronti della donna che la nostra specie nutre un feeling particolare, se è vero che Dio aggiunse: "Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno" Genesi III,15. Oppure ancora "Però Satana li fece scivolare da esso (dall'Eden) e li fece bandire dal luogo in cui si trovavano" Corano, Sura II,34. Tutto questo per sottolineare come la vita, per noi serpenti, sia sempre stata parecchio dura. Non fa eccezione il viaggio che ho fatto con Sandra in Siria. Dopo essere stato chiamato tante volte in causa senza che mi sia stata mai offerta la possibilità di esprimere il mio punto di vista, invoco qui la par condicio per un'esposizione personale dei fatti, peraltro assolutamente obiettiva e veritiera.

La Partenza

Giungiamo alla nuovissima aerostazione di Malpensa 2000 su di un pullman guidato da un autista che, di tanto in tanto sbotta, borbottando la frase: "ma dove vanno tutti sti'imbecilli!!!". Ringrazio il cielo per esser giunti in orario, ottenendo in cambio un tramonto grigio-topo che stende presto la sua coltre di cemento pietoso sulla fumosa Val Padana. Sandra trascina il solito enorme borsone nero, che mi appoggia senza indugio, aggiungendo soddisfatta: "In viaggio è meglio essere leggeri e portarsi poco bagaglio". Il "capo", cioè Sandra, afferra proditoriamente i biglietti aerei d'entrambi e si dirige sicura (non prima d'essersi fumata una sigaretta) verso il check-in dove s'intrattiene amabilmente in quisquilie con l'impiegata, lasciandomi come un'ebete dieci passi indietro, come se fossi la moglie d'un integralista islamico. Ottenuti i documenti d'imbarco, Sandra li ficca assieme ai passaporti nel suo capace giaccone milletasche in purissimo similvinil grigio. Subito dopo decide che il leggero languorino che sente da qualche tempo va senz'indugio appagato e, dopo attenta scelta, decide per una crêpe al Grand Marnier che, più che mangiare, si diletta a sventrare e tagliuzzare, improvvisando una piccola autopsia. "Ne vuoi un po' ?" esclama ridacchiando. Un freddo brivido mi scivola giù per la spina dorsale, fermandosi proprio là dove Lei si ostina a sostenere che ho la mia parte migliore. Scappo in bagno con un pretesto, mentre Sandra si accende la seconda di un'interminabile serie di sigarette (che io, da buon serpente, non riesco a fumare). Soddisfatti gli stimoli della fame occorre appagare i richiami del vizio. Ci rechiamo quindi al duty-free dove la scelta cade su certe stecche di marche di sigarette esotiche "così si risparmia", mi dice, toccandomi il sedere e strizzandomi l'occhio. Riesco a distrarla indicandole un set di coltelli da cucina, e così riesco ad inserire nel mucchio della spesa un mezzo litro di whisky marca Ballantine's oltre ad una cioccolata ripiena al rhum: non si sa mai cosa ci può attendere in un paese arabo...Giunti alle tre casse, troviamo una fila interminabile. Sandra sceglie quella che appare essere la più rapida. Non più di tre persone ci separano dalla cassiera quando ad un tale salta in testa di pagare con la carta di credito del Banco del Belucistan. L'impiegata corre dal direttore, la fila s'ingrossa. Dopo dieci minuti la tipa non si vede ancora, noi siamo ormai imbottigliati senza rimedio mentre le altre due file scorrono senza intoppo. La cassiera ritorna dopo altri cinque minuti con un apparecchio manuale che sputa fuori la carta sospetta più volte, prima di rassegnarsi ad ingoiarla. La folla dietro di noi rumoreggia ed un tale (certo un milanese) perde la calma, sbottando contro la lentezza della fila. La situazione degenera e una coppia getta sdegnata la merce sul bancone, abbandonando la coda sulla scia d'irripetibili improperi dettati della concitazione del momento all' indirizzo della malcapitata (e maldestra) cassiera. La situazione mi strappa un sorriso. Abbozzo una battuta, ma Sandra mi fulmina con un'occhiata di fuoco. La maleducazione e la lesa dignità della Sorellanza irritano sempre Sandra, che si fionda indispettita in toelette. Mentre l'aspetto fuori, carico del mio e del suo bagaglio, per non parlare della sporta degli acquisti, mi sovviene di non essere più in possesso di passaporto e carta d' imbarco. Al suo ritorno ne chiedo la restituzione per il controllo. Mi guarda come se fossi un marziano: "Ma non ce li hai tu?" mi domanda serissima e anche un po' seccata. Davanti al mio preoccupato stupore tira fuori il giaccone, lo rivolta, lo spreme, ma non riesce a trovar nulla. Namo bène, penso io! Dopo due interminabili minuti dedicati a perquisire il borsone, cava fuori la merce dai più profondi recessi del suo pastrano e, sorridendo e toccandomi il culo, mi dice "sei proprio un idiota". C'imbarchiamo e, dopo appena mezz'ora di ritardo (trattandosi di Alitalia) l'aereo molla gli ormeggi alla volta di Damasco. Inshallah!!!

La Moschea degli Omayyadi a Damasco

Un taxi sfreccia rapido lungo i 25 km d’autostrada che separano l’aeroporto internazionale di Damasco dal centro città. All’interno, trasformato in camera a gas dalle pestilenziali esalazioni delle sigarette del driver combinate con quelle di Sandra (che, dopo le 3 ore e mezzo trascorse sul volo no-smoking Malpensa-Damasco è assai prossima ad una crisi d’astinenza), fervono le prime lezioni di lingua araba impartite dall’insonne fumatrice che, implacabile, mi legge tutti i cartelloni stradali ai bordi della strada, mentre sfrecciano via sui 140 orari ai lati del campo visivo. “Quella che sembra una elle è in realtà una A. La L non si mette, però va letta ...”: l’articolo al- è l’unica parola di arabo (assieme a buongiorno, buonanotte, grazie e prego) che riuscirò ad imparare nel corso del viaggio. L’alfabeto arabo non contempla tutte le vocali: non esiste la O e la E, mentre la I si rappresenta con dei puntini, ci sono vocali lunghe e vocali brevi, oltre a 4 varianti per ciascuna consonante, a seconda che siano iniziali, finali, in mezzo oppure lettere isolate. Insomma, è un gran casino che si legge oltretutto da destra verso sinistra: ce n’è più che abbastanza da farmi venire il mal di testa, anche senza contare le volute di fumo puzzolente che appestano l’abitacolo del taxi. Sandra, per tutta la durata del tragitto, continua inarrestabile con le traduzioni, tutte diverse, finché, come Dio vuole, arriviamo all’hotel. Grazie a qualche calcio ben assestato al portone sprangato, riesco a svegliare l’usciere che, assonnato, ci rivolge la parola in un dialetto arabo incomprensibile. A gesti, lo imploro di andare a chiamare qualcuno che conosca uno straccio inglese. Sono circa le 3 di notte. Sandra si butta in commenti ironici sulle mie scarse qualità di discente. Mi vedo rassegnato a trascorrere una notte all’addiaccio (le notti marzoline di Damasco sanno essere parecchio fresche) quando scorgo accendersi una fioca luce sul fondo degli occhi cisposi del portiere di notte. Il beduino, pur di tornarsene a dormire, va a svegliare un responsabile che ci accoglie con lo stesso calore di un coccodrillo in trance. Della mia prenotazione telefonica si è persa ogni traccia. Fortunatamente il funduq risulta ancora parzialmente fornito di camere libere, perché la comitiva di pellegrini iraniani di passaggio a Damasco nel bel mezzo del loro haj annuale alla Mecca non è attesa che per l’indomani. Non siamo ancora giunti in camera, che già Sandra inizia a personalizzare l’ambiente accendendosi una bella sigaretta. Infine si mette da brava a dormire, non senza avermi prima augurato la buona notte tastandomi il sedere. Al nostro risveglio tento d’istruirla sugli usi e costumi locali (non sia mai detto che noi turisti ci si debba sempre comportare in modo offensivo o irriguardoso verso i costumi locali). Nell’Islam, spiego a Sandra, la donna deve sempre seguire (e mai precedere) il proprio marito, tenendosi a debita distanza (almeno 3 o 4 passi più indietro) e con lo sguardo rivolto in basso. Inoltre, fatto non meno importante, deve sempre essere abbigliata in maniera adeguata (cioè si deve avvolgere in una veste nera e coprire il volto con un velo dello stesso tenebroso colore). Nella hall le addito pure numerosi esempi d’islamica modestia muliebre, abbigliate come ho descritto. Sandra inizia subito ad agitarsi: “Coosaaa??? Io dietro di teee???? E per di più coperta come un fantasma???!! Ma chi ti credi di essere!!! Accidenti a te e a questo paese, voglio subito tornare indietro”. Per mia fortuna, i fantasmi nella hall erano solo avanguardie dell’harem dei pellegrini iraniani. Ci accorgiamo subito che in Siria vige una notevole tolleranza, una maggiore “rilassatezza” dei costumi. Tutto merito, senza dubbio, dell’impianto statale laico d’ispirazione socialista. Rinfrancata, Sandra indossa una striminzita T-shirt che lascia scoperti gli avambracci, proprio come mamma li ha fatti. Dell’assenza di reggiseno, mancante perché bruciato nel corso di una manifestazione femminista circa una ventina d’anni fa, mi preoccupo assai meno, perché la perdita irrimediabile risulta mascherata da un ampio maglione. Per non discutere oltre la lascio incedere davanti a me e interloquire con chi le pare (facendo mostra di essere quel tipo di marito che non è capace di farsi rispettare). Come se non bastasse mi tocca blandirla ogni volta che i maschi locali danno mostra d’ignorare la sua presenza, rivolgendosi al presunto marito (che poi sarei io). Questo strano modo di comportarsi non è affatto infrequente da queste parti: è considerata una forma di rispetto (paese che vai ...). Dopo aver faticato non poco per riuscire ad attraversare i venti metri di traffico insormontabile che ci separano dalla porta d’ingresso alla città vecchia, c’immergiamo beati nel suq. L’equa divisione dei compiti impone che sia io a trasportare e a leggere ad alta voce le tre guide, mentre Sandra mi interroga per controllare in che misura capisco ciò che leggo. Inutile aggiungere che le tre guide sono tutte in lingue differenti. Va da sé che la traduzione deve scorrere liscia, resa in perfetto italiano. La moschea degli Omayyadi si trova nel cuore della città vecchia, dove s’innalza all’ombra di tre grandi minareti, sulle fondamenta del tempio di Giove damasceno, frutto dei lavori di trasformazione di una cattedrale cristiana dedicata a S. Giovanni. Il grandioso porticato interno era un tempo interamente rivestito da mosaici scintillanti di cui oggi non restano che frammenti, sopravvissuti al grande rogo del 1893. Quando i raggi obliqui del tramonto accendono ciò che ne resta si può avere una vaga idea dell’antica magnificenza dei paesaggi di smeraldo sotto i cieli dorati. Verde e oro: unici colori concepiti dalla fantasia degli arabi per compensare l’arida monotonia del deserto. Da sempre gli ampi spazi vuoti ispirano sentimenti religiosi ma, dopo un’intera mattinata a passeggio, occorre provvedere anche ai bisogni del corpo, che reclama nutrimento. Fedele al mio nome, induco Sandra in tentazione, proponendole un frugale pranzetto a base di hommuz, kebab e felafel nel retrobottega di una macelleria situata in un vicoletto laterale del suq. La bottega, con le sue file di animali squartati, appesi a garanzia di qualità e suggello di freschezza, è istintivamente gradita a Sandra. Dopo il pasto, faccio notare la mancanza di un bel gelato, ma lei, tastandomi il sedere, sentenzia inappellabile che, per oggi, ho già ingurgitato troppe calorie. Al massimo posso concedermi un caffé alla turca, senza zucchero e in fretta, perché ci aspetta la visita al palazzo di Azem, alla moschea di Sayyida, e al Museo della Medicina. “Ma perché mai proprio il museo della medicina?” domando incuriosito. E Sandra: “Gli arabi erano maestri nell’arte medica, inventarono l’anestesia, la chimica e la chirurgia. Erano contrari all’idea cristiana che il dolore sia necessariamente una punizione divina. Mi servirà ad appagare le mie curiosità di anatomo patologia: devo studiare la dissezione del corpo umano secondo i precetti di Erofilo Calcedone e di Erasistrato di Iulide, nonché di Rufo d’Efeso e di Galeno”. Taccio, pensando con un brivido alla vivisezione cui potrei andare incontro ad ogni mio commento non ponderato sull’argomento. Dopo le visite di rito rientriamo in hotel, dove mi butto sul letto e sprofondo in un sonno catartico. “Questi uomini, non c’hanno più il fisico” sarà il commento di Sandra l’indomani.

Conversazioni all'ombra del Krak dei Cavalieri

Lungo la strada che da Homs conduce a Tripoli si intravede in lontananza, sulle alture di destra, la sagoma di una grande fortezza. Si tratta del Crac dei Cavalieri (dal vocabolo siriaco “KRAK”, che significa fortezza) costruito da oltre sette secoli in una posizione strategica tra la pianura di Homs ed il mare. Troneggia da un’alta collina, imponendosi per grandiosità e sobria eleganza architettonica. Un vento freddo, gravido di gocce di pioggia, soffia impetuoso da occidente, dalle alture dell’Antilibano. Le raffiche gelate spazzano gli spalti, s’ingolfano nelle grandi sale deserte, fischiano sotto le volte oscure tra gl’imponenti bastioni di solida pietra di calcare grigio presso quello che T.E. Lawrence ha definito il più bel castello del mondo. Sono le tre di un pomeriggio grigio e nuvoloso. Il castello è ancora aperto ai visitatori, ma nelle sale vuote non si muove più anima viva. In assenza della solita confusione dovuta alle mandrie di turisti, gli unici rumori che si odono sono il sibilo del vento unito allo stillicidio delle gocce d’umidità che trasuda dalle pareti. Compiendo un piccolo sforzo d’immaginazione riesco a “vedere” i soldati in armi mentre sciamano entro le torri, i Cavalieri mentre lasciano la grande sala delle riunioni per celebrare la messa nell’attigua cappella. Le lunghe distese di tavolati dei refettori, le stalle con centinaia di cavalli e gli opulenti magazzini. Avvolti nell’umida penombra delle gallerie, un brivido sottile ricorda la presenza di tanti fantasmi che qui hanno vissuto e combattuto per poi morire. Intere generazioni di armati si sono avvicendate in questo freddo universo di pietra: cavalieri crociati, franchi invasori contro arabi musulmani. Se i poemi cavallereschi hanno avuto un’origine, un’ispirazione, è stata certamente in questo luogo. Dal torrione di sud-ovest, il più alto, dove si trova l’appartamento del castellano, comandante della fortezza, riecheggia attraverso gli androni e i cortili ormai deserti l’eco di un’accesa discussione. Il boa “Non mi sorprende che neppure il grande Saladino sia mai riuscito ad espugnare questa fortezza: è l’archetipo stesso del castello, corrisponde all’idea che ci eravamo fatta da bambini”. E Sandra “I serpenti da piccoli sono solo uova. Parla come mangi. Se avessi letto con più attenzione, non ti sarebbe sfuggito che il Saladino, il Libertador della Siria dall’invasore cristiano, era un fine diplomatico, un buon conoscitore dell’animo umano: stratega ancor più che guerriero. Piuttosto che perdere tempo e uomini in un assedio che si preannunciava lungo e difficile, preferì scavalcare la fortezza, lasciarsela alle spalle per proseguire vittorioso in direzione della costa e di Lattakia.” Il boa “Dunque fece come l’ammiraglio Nimitz, che impiegò la strategia d’isolare e scavalcare i giapponesi asserragliati negli atolli del Pacifico, piuttosto che impegnarsi in sanguinosi scontri all’arma bianca”. Sandra “ Ma bravo il mio serpente, vedo che ti è almeno rimasta in zucca qualche nozione di storia della II Guerra Mondiale. Ma, a differenza del comandante in capo della 5a flotta del Pacifico, il prode Saladino venne a patti con i principi cristiani e, finché fu in vita, preferì sempre il compromesso alla cieca violenza militare” Il boa “Fu così che il Crac venne conquistato dal sultano mamelucco Baibars “la pantera” quasi un secolo dopo, nel 1271: solo perché la scarna guarnigione rimasta a difendere il crac, poche decine di Ospedalieri, fu costretta a cedere con l’inganno per una falsa lettera di resa da parte del comandante delle truppe franche a Tripoli. Gerusalemme era ormai caduta e non c’era ormai possibilità alcuna di ricevere rinforzi: il tempo dei crociati era scaduto”. Sandra “Va bene, ma ora è scaduto il nostro, di tempo. Sbrighiamoci ad uscire da qui, ché fra un po’ ci chiudono dentro. E poi me lo spieghi tu come facciamo a nutrire la tua parte migliore”. Di ritorno ad Homs un piccolo guasto alla messa in moto dell’auto movimenta un po’ la giornata, costringendomi ad un po’ di esercizio fisico imprevisto. Sono costretto a spingere con Sandra al volante “Io non posso perché non ho le scarpe adatte”, perché l’auto a nolo, ritirata fresca fresca stamani dalla Marmou Rent a Car di Damasco, non voleva più saperne di ripartire. “Te l’avevo detto di non fidarti della Lonely” mi dice Sandra. “D’ora in poi sarò io a decidere sui mezzi di trasporto: d’ora innanzi solo agenzie affidabili, come l’Europecar. Basta coi soliti inutili e controproducenti risparmi da 20 dollari al giorno!!!”. Il boa “Ok, ok, ma ora, mentre sto spingendo, cerca di togliere il piede dal freno e girare in senso orario la chiavetta d’accensione... non dirmi che sei in seconda, piuttosto gira la chiave, pant... gira la maledetta chiaveeee... pant, pant”. Allah è sempre misericordioso e compassionevole coi credenti (e, per fortuna, non solo con loro) e così, anche se da fermo, la macchina si rimette miracolosamente in moto. La cortesia di un siriano ci guida poi attraverso le labirintiche vie di Homs-Emesa (città che dette i natali a Giulia Doma e Giulia Maesa, le due sorelle sacerdotesse che, grazie ai loro intrighi, riuscirono ad imporre la propria dinastia d’imperatori romani, tra cui Caracalla ed Eliogabalo), fino all’autonoleggio dove, dopo un’ora, riusciamo ad ottenere un’auto in sostituzione. Il boa “Ecco, lo vedi, siamo di nuovo in marcia, diretti ad Hama senza più problemi di accensione. Tutto è bene quel che finisce bene”. E Sandra “Si, e l’ultimo chiude la porta. Ma fammi il piacere. Peccato che il sole sia ormai al tramonto e tu non abbia verificato il buon funzionamento delle luci di quest’auto...”. Il boa: “Ehmm , in effetti mi accorgo solo ora che si accendono solo le luci di posizione... Non ci resta che accodarci a qualche TIR e cercare di raggiungere Hama prima che faccia troppo buio. Che Allah ce la rimandi buona...”.

Alexandra

La strada che porta al sito di Apamea si dirama dalla M1 all’altezza del villaggio di Khan Shaykun. Non esistono segnalazioni di sorta o indicazioni scritte in una qualche lingua comprensibile ai comuni mortali per offrire sicurezza e conforto agli incauti pellegrini stile “fai da te” che osano avventurarsi da soli nel bel mezzo di queste siriache contrade. Per colmo di sventura, si da il caso che questa sia l’unica e sola forma di viaggio contemplata da Sandra. L’unico modo di far turismo per lei “sostenibile” (anche per me, se è per questo, ma la cosa è irrilevante). “The navigator”, ovverosia Sandra, mi ordina all’improvviso una conversione ad “U”, con tanto d’invasione della carreggiata opposta. “Tanto qui lo fanno tutti” è la scontata risposta alle mie rimostranze. “Su, non essere il solito cacasotto!!!”. Seguendo l’insondabile volontà di Allah possente e misericordioso, dopo una svolta a sinistra, una a destra e una rotonda priva d’indicazioni, lasciamo la retta via per inoltrarci lungo una stradina di campagna che, dopo qualche chilometro, si trasforma in un vero e proprio viottolo che attraversa un paesaggio di dolci declivi coltivati, tra paesini assolati quanto orribili nelle loro architetture di cemento armato. All’aumentare del percorso segnato dal contachilometri (che mi ostino a chiamare tachimetro solo per far incazzare Sandra che mi corregge sempre puntigliosa) le buche aumentano di numero e di dimensioni al punto tale da farmi temere per l’integrità dei pneumatici e dei semiassi della nostra auto. “Con questi scossoni non riesco più a controllare la macchina!”. Dico sconsolato. Sono costretto a rallentare pur essendo già in ritardo sulla tabella di marcia “Fai attenzione, bestia! Non vedi la moto stracarica in mezzo alla strada?” Mi fa eco Sandra, dandomi una gomitata tra le costole. A stento evito una tragedia, riuscendo per un pelo a schivare la lugubre comitiva dei tre fantasmi neri (donne, certamente) che camminavano incuranti sul bordo opposto della carreggiata. Ho sempre temuto le moto, sebbene mai quanto i loro sconsiderati guidatori. “Sandra, se mi molesti ancora una volta, scendo e ti faccio guidare te!!!” Sbraito. “Ma come, per un pochino di solletico... Con te non si può proprio mai scherzare, non hai il minimo senso dell’umorismo”. “Non è vero”, rispondo sdegnato, “questa non è la grande statale percorsa dai pullman, che m’aspettavo”. “Ecco, grazie alle tue doti di navigatrice rotta ad ogni itinerario e difficoltà, ci siamo persi”. “Bada a come parli”, mi dice Sandra con un sibilo, “io non mi perdo mai. Sei tu che mi hai fatto perdere, guidando con l’abituale distrazione. Ora mi toccherà rimediare alle tue scempiaggini chiedendo, col mio arabo perfetto, informazioni al primo indigeno che incontriamo”. Dopo numerose giravolte nella verde campagna scorgiamo infine profilarsi all’orizzonte un miraggio: un insieme d’aerei archi e slanciate colonne nate dal nulla per sbocciare in mezzo al vuoto. Mi dirigo verso quella distesa di pietre antiche, resti di una delle più grandi metropoli del medio oriente ellenistico e romanizzato. Parcheggiamo all’incrocio del decumano col cardo per poi inoltrarci a piedi, attraversando l’aereo colonnato nel senso della sua interminabile lunghezza. “Cosa sono queste strane colonne tortili a mezza via sul cardo?” Mi chiede Sandra con fare indagatore. Ella è il Dovere fatto persona, un istinto che piega qualsiasi altra finalità, dove persino l’errore dell’artefice più meticoloso viene subito rilevato e tosto redarguito. “Ma che caspita di scempiaggini vai meditando?!?”, mi domanda all’improvviso. “Lo so che stavi pensando a qualche fandonia inventata sul momento di sana pianta per mascherare la tua ignoranza buttandola in facezie, anche se in genere te ne scordi un minuto dopo” m’incalza indagatrice. “T’avviso che, di qualunque cosa si tratti, non servirà certo a farti perdonare la tue lacunose nozioni rabberciate, senza contare il fatto che tocca poi sempre a me rimediare ai tuoi errori d’approssimazione”. “Chi ha fondato Apamea?” mi domanda a bruciapelo. Boia, il quesito mi coglie di sorpresa. Invano cerco di recuperare qualche indizio interpretando la sua espressione corrucciata. Ad un certo punto sbotta: “Vieni qua, bestia parda, e dammi la guida”. Ammira questo splendido cardo colonnato che si perde contro l’orizzonte della pianura. Seluco I Nicatore chiamò questa città con il nome della donna amata, Apamea”. “Tu, che non mi regali mai niente, prendi esempio da quel satrapo raffinato, con uno spirito sì nobile”. “Che mi hai mai regalato tu, che si avvicini anche solo lontanamente ad un dono tanto splendido” Ed io a lei “Facile era fondare nuove città per i generali di Alessandro e poi dedicarle alle proprie mogli o madri, come per la città di Apamea e Lattakia. Non costava loro nulla e ci facevano una figura da principi. E’ troppo comodo essere splendidi quando si governa un’impero. Ai nostri giorni, con quel che costa la vita, si può donare solo l’affetto. E poi, ho come il vago sospetto che Apamea dovesse essere più bella di Salomé e Cleopatra messe insieme...”. “Che vuoi insinuare, sottospecie di serpente? Non sai che nessuna è più bella di me? E non dire ‘Ti amo’, anche tu, dammi soltanto il tuo cuore, niente di più...(I. Grandi)” Taccio, come al solito quando faccio na’ gaffe, ed infine risaliamo in auto, diretti a Mahardiyya, Al-Bara e Serjilla: le cosiddette “città morte”. A Sandra tutto quanto è morto piace assai, ancor più se si tratta una città e non c’è anima viva. Ma devo dire che il bizzarro fascino di questi luoghi incanta pure me. All’ombra dei massicci e intatti edifici in pietra calcarea d’epoca bizantina giocano i bambini e pascolano le capre, come più di mille anni fa. La campagna è brulla e arida, sassosa e ondulata. Non c’è uno straniero, eccettuati noi, solo famigliole indigene intente a consumare la loro “petit déjeuner sur l’herbe”. A Mahardiyya mi perdo tra le pietre ma, poco dopo, m’imbatto in Sandra intenta a giocare a pallone con un gruppo di bambini e bambine nel cortile d’un palazzo bizantino in rovina. “Che fai lì a guardare, pigrone” m’apostrofa. “Dai gioca anche tu, che così fai calare un po’ le tue maniglie dell’amore, che sono ormai diventate delle dimensioni dei rotoloni Scottex®” Sorrido sospirando, mentre scendo in capo per la prima amichevole Italia-Siria: uomini (2 ragazzi e un serpente) contro donne (8 femmine adolescenti velate + Sandra). Subito segno un autogol con un colpo di testa (eccheccavolo, sono almeno vent’anni che non gioco più a calcio). Boato dalla parte avversa. Gli animi si scaldano. Sandra tira calci agli stinchi degli avversari, anziché al pallone. Nella foga, scambio la palla per un prezioso frammento di capitello marmoreo e gli assesto una violenta cannonata. Anche se il sole splende, riesco a vedere tutte quante le stelle. “Non potremmo cambiar gioco, chennesò, giochiamo a pallavolo, a volley, yèsss?” Imploro zoppicando. “Dici così perché state perdendo”, esulta Sandra. Ma io non demordo: “Da brava, saluta le tue amichette che dobbiamo andare, Serjilla ci aspetta e sono già le tre del pomeriggio”, aggiungo subdolo, puntando tutto sul Dovere. A malincuore, Sandra mi da ragione. Salutiamo i nostri piccoli amici ripartendo diretti verso quel gioiello d’arte antica misconosciuto che è, appunto, Serjilla. Ultimata la visita, mi accorgo che la macchina ha due gomme a terra. “Porca vacca” dico, “lo sapevo che stavamo correndo troppo forte lungo quella maledetta strada piena di buche!!!”. “Beh, che aspetti?” mi fa eco Sandra. “Invece d’imprecare, rimboccati le maniche, signorina, e sostituisci la ruota bucata. Nell’altra c’è ancora un filo di pressione e forse ce la facciamo ad arrivare al gommista più vicino, prima che chiuda”. Eseguo senza fiatare. Qualche km più avanti, troviamo il nostro Salvatore, che ci ripara la foratura e gonfia tutte quante le gomme, rifiutando, per di più, d’esser pagato. Sentiamo, per la prima volta, nascere in noi un sentimento di riconoscente gratitudine, quasi d’amore, verso i siriani. Ci hanno insegnato qualcosa che nel nostro paese si è perso da tempo, ammesso che nella cultura occidentale sia mai esistito qualcosa di simile ai doversi dell’ospitalità verso gli sconosciuti. Calano ormai le prime ombre della sera quando finalmente raggiungiamo Tell Mardikh: Ebla. Troviamo nel parcheggio solo tre enormi pullman granturismo che hanno appena evacuato nel sito il loro prezioso contenuto. Ovviamente, due turisti su tre sono italiani. La nostra macchinina impolverata giace sola soletta. Pare piccola piccola al cospetto degli enormi pullman di lusso con TV, frigobar e air con. Di “privati” non c’è traccia: solo Sandra ed il suo (in)fedele serpente. Tutti gli altri sono giunti in gruppo. Essendo tutti “una faccia una razza” (nonostante Sandra continui a vantarsi delle sue ascendenze celtico-teutoniche), in ossequio alla mia fama, la trascino accanto ad un gruppo la cui guida parla italiano. Mentre fingiamo d’essere intenti a scrutare le rovine immersi nella lettura delle nostre guide, origliamo avidamente le altrui spiegazioni. Sto quasi per interloquire, calato come sono nella parte, quando Sandra mi trascina per una manica ad ammirare l’archivio reale. Non so come, ma riesce poi a farsi invitare a bere il tè, gentilmente offerto dal guardiano del sito (Sandra è speciale quando vuole sedurre il prossimo) che ci racconta di essere intimo del Prof. Paolo Matthiae de “La Sapienza”, che ogni anno ritorna qui, puntuale come l’autunno, per riprendere le sua campagne di scavi (deve ancora essere esplorato l’80% del sito). E’ quasi buio quando lasciamo il tempo d’Ishtar, riguadagnando la M1 alla volta di Aleppo. Causa il solito guasto, ci tocca procedere tenendo accesi i proiettori abbaglianti (rischiando l’arresto), oppure scegliere di provocare incidenti tenendo accese le sole luci di posizione, perché la riparazione all’impianto non ci ha lasciato altre chance (tutto o niente, padella o brace, come la vita). Optiamo per la clemenza della polizia siriana, procedendo verso Aleppo con i proiettori abbaglianti spianati sino all’ingresso in città. Questa stessa opzione ci costerà un’altra “Grande Avventura” al ritorno da Mari a Deir Ez-Zor, a notte fonda, ma questa è, come si suol dire, un’altra storia...

Colofone

Sandra è l’ossessione del progetto che sommerge nel pensiero quella dei sensi. La sua mente è affilata almeno quanto gli affilati strumenti che sa maneggiare con sapienza, sia per un ago aspirato che per un’accurata autopsia. I serpenti restano a loro volta incantati e rimangono vittime del suo fascino sottile mentre le parole cedono il passo ad un rumoroso silenzio... 

Maggio 2000

Bibliografia

  1. I Baroni di Aleppo - Biblioteca Adelphi. Mario Fales, Siria, Guida all'Archeologia e ai monumenti - Marsilio Editori £ 55.000.
  2. Andrew Humphreys, Damien Simonis - Syria - Guida in inglese della Lonely Planet 1a Edizione Novembre 1999. pp.312 con foto a colori £ 40.000.