Cina - Xinjiang

Kashgar Chai

Traversata da Lhasa a Kashgar lungo la Xinjiang Road

Testo e foto di Giuseppe Pompili

 

“Sonnecchiando a cavallo,
Dai fuochi delle foglie del tè il fumo
Sale verso la luna.”
Basho

 

Se davvero la velocità dell’oblio è proporzionale a quella dei corpi animati, come sostiene Kundera nella “Leggerezza”, allora una traversata via terra dal Tibet al Sinkiang al Pakistan in sole quattro settimane non dovrebbe lasciare traccia di sé nella memoria, tale è stata la brevità del viaggio in relazione alla varietà etnica e geografica che abbiamo incontrato. Nonostante questo, laddove la nostra natura associativa riesce ad organizzare i frammenti di ricordi che affiorano dall’alchimia della memoria in una parvenza d’ordine, ecco che una collezione d’istanti discreti si fonde in un continuum per rispecchiare una personalissima percezione dei contrasti fra montagne, città e popoli in cui ci siamo imbattuti.

Le Montagne

Ammirato per la prima volta dai finestrini dell’aereo il paesaggio del Tibet appare grigio e ondulato, una regione monotona e spoglia solcata da valli chiuse da distese d'alte colline scure. Là dove le valli allargandosi lasciano spazio alla pianura compaiono i campi, continuamente strappati ai fiumi dalla fatica degli uomini. Viaggiando lungo la Via Sud, la più meridionale delle due uniche strade che portano nelle vaste e spopolate regioni occidentali, si risale il corso del fiume Yarlung. Lo Yarlung Tsangpo, che in India diverrà Brahamaputra, scorre per un lungo tratto parallelo all’Himalaya. Le bianche cime della catena emergono qua e là sopra le nuvole a sovrastare le più modeste montagne tibetane. Si devono affrontare più di 1200 chilometri di piste sterrate e svariati guadi per giungere da Lhasa alle piane di Barka, vaste praterie d’alta quota bagnate dai limpidi laghi turchesi Manasarovar e Rakas Tal. Nei pressi dei due laghi, alle falde del Monte Kailas, in un’area sacra da tempo immemorabile nascono fiumi come l’Indo, il Sutlej, il Karnali e il Brahamaputra, meta ultima dei pellegrini indiani, nepalesi e tibetani, l’Ombelico del Mondo secondo la teogonia buddhista.

Le Vie Nord e Sud proseguono oltre il Kailas in direzione Nord-Ovest per circa trecento chilometri prima di ricongiungersi ad Ali, capoluogo del remoto distretto occidentale. Al centro del villaggio tre strade convergono ad una rotonda da altrettante direzioni cardinali ed in questo punto ha inizio la Strada del Sinkiang, l’unica via di comunicazione che raggiunga il Tibet da Kashgar attraversando le zone più elevate e inospitali dell’altipiano. Inseguendo i flutti dell’Indo sin dalle sorgenti si abbandona gradualmente la regione sacra e con essa anche il tipico paesaggio del Tibet occidentale, la cui anima muta all’apparire delle geometrie tormentate della catena del Kun Lun che isola a settentrione l’altipiano dal deserto di Taklamakan. Nude montagne cineree dai profili aspri e frastagliati si sostituiscono alle morbide colline così comuni nel panorama tibetano. Vertiginosi conglomerati di sassi di ogni dimensione, cementatati insieme dal fango e dal tempo, strapiombano verso il basso, accatastati in forme improbabili nell’attesa che la pioggia ed il vento li sciolgano dalla prigione di sabbia per scaricarli nelle acque limacciose dei fiumi, nastri trasportatori dei detriti del Kun Lun al capolinea del Taklamakan. Le basi militari cinesi, uniche isole stabili di umanità nelle zone più elevate dell’altipiano, tratteggiano ad intervalli regolari la frontiera contesa con l’India. In questa regione, ad un’altezza media che supera quella del Monte Bianco, persino l’erba è restia a mostrarsi e sembra farlo controvoglia, in forma di ciuffi spinosi che emergono qua e là da un suolo polveroso e scuro come il fondo di un mare prosciugato. I villaggi e gli altri insediamenti umani più stabili lasciano il posto alle yurte solitarie di pastori nomadi o alle tende dei mercanti cinesi, trapiantati in quota dal miraggio di una buona stagione di lavoro rifocillando i camionisti di passaggio lungo la Xinjiang Road. Le tende di tela, già invecchiate dal fumo e dalle intemperie, offrono un riparo di carta velina contro il vento gelido che spira incessante sulle pianure avvitandosi in grandi vortici come nei deserti africani. All’interno delle tende il carbone brucia senza fiamma entro una stufa di terracotta, diffondendo nell’aria sottile echi di luce vermiglia che sembrano danzare sui densi vapori di sfiato della pentola a pressione dove cuociono i noodles confezionati con destrezza dalle mani abili del cuoco cinese. Poco oltre il duro lavoro dei genieri dell’esercito si affanna a contrastare la naturale tendenza al parto delle montagne gravide di pietre per dare un’effimera vita alla strategica strada militare. Così, tra non molto, anche i carri armati cinesi potranno popolare le brulle valli dall’aria sottile, accanto alle marmotte e alle gazzelle, ai lupi ed ai falchi, nuovo genere di mastodonti tecnologici le cui carcasse arrugginite non tarderanno a trasformare in cimitero anche i passi più impervi.

L’apparente desolazione del paesaggio non è però sinonimo di sterilità, perché pure nella monotonia dell’altipiano la vita è presente, spesso mimetizzata nell’immobilità. Un’osservazione più attenta e paziente restituisce allora un mondo vivo e vitale. Là dove lo sguardo distratto coglie unicamente il vuoto le marmotte si tuffano di scatto nelle tane mentre le antilopi fuggono correndo libere nelle pianure fino a confondersi all’orizzonte con le linee di fuga dei pali del telegrafo.

Superate le gole del Kun Lun la pista migliora man mano che ci si abbassa di quota per addentrarsi nelle vaste pianure di sabbia e ciottoli, chiuse a tenaglia dal Pamir in direzione Ovest e dalle Montagne Celesti verso settentrione. Lungo i bordi del bacino di Tarim, un’enorme depressione desertica grande una volta e mezzo l’Italia, sorgono antiche città che hanno ospitato le carovane di mercanti lungo la Via della Seta: le oasi di Yarcheng, Turfan e Kashgar. Verso Ovest le alte vette del Pamir si alzano repentine dalla pianura a chiudere l’orizzonte con la mole possente del Kongur e la silhouette ingobbita del Muztagh Ata, il padre dei monti di ghiaccio. Tra questi monti ha inizio, o fine, la Karakorum Highway, l’Autostrada dell’Amicizia tra Cina e Pakistan che a dispetto delle continue frane e slavine unisce nei mesi estivi i due paesi attraverso il passo Khunjerab. Di là dal passo si entra nel Karakorum, il regno delle più belle montagne del mondo. Lungo le valli dell’Hunza e dell’Indo si affacciano, incastonati tra i ghiacci, gioielli di granito grigio venato da mille sfumature d’ambra e topazio. La grandiosità delle cime non è nascosta dalle grandi distanze come in Himalaya o dagli altipiani come in Tibet. Dietro ai frutteti d'albicocche del villaggio di Sust, non lungi dalla strada, svettano picchi che costringono ad alzare lo sguardo per lasciarsi ammirare interamente, affilati come rasoi e alteri quanto una bella donna. A Karimabad più di quattro chilometri verticali di lisce pareti di roccia, ghiacciai tormentati e goulottes vertiginose terminano a strapiombo nei verdi prati di Ultar all’ombra del “dito” di granito di Lady Finger, in un paesaggio dalle proporzioni colossali. Dall’altro lato della valle si stagliano al di sopra delle rive dell’Hunza le cime del Rakaposhi e del Nanga Parbat per suggellare in maniera definitiva la certezza di trovarsi innanzi ai maggiori dislivelli del pianeta.

Le Città

La febbrile operosità cinese sta cambiando la geografia del Tibet a tappe forzate, ad iniziare dal centro di Lhasa. L’antico quartiere che gravita attorno al Jokhang, per esempio, è oggi in completo rifacimento. Le vecchie case tibetane a due piani sono rase al suolo e ricostruite in loco più belle di prima, certamente una soluzione semplice ed economica in un paese dove la mancanza di manodopera non costituisce certo un problema. Simultaneamente sul greto del fiume un altro grande cantiere sta gettando lo scheletro in cemento armato di un lussuoso albergo con vista sul Potala, destinato ad annientare i fasti del più decentrato Holiday Inn. Se le tendenze si devono valutare dal centro, allora la conferma di una volontà di arricchire d'infrastrutture il paese per agevolare gli spostamenti ed il controllo sul territorio è data dai ponti che spuntano qua e là, numerosi come funghi in un bosco d’autunno. Giusto due anni or sono, per giungere al Kailas, occorreva traghettare lo Yarlung nei pressi di Lhazê e poi ancora superare numerosi guadi oltre il villaggio di Saga, lungo la Via Sud. Grande è stata la nostra sorpresa l’estate scorsa quando siamo riusciti a superare senza difficoltà due guadi impegnativi su moderni e solidi ponti. Queste novità permettono ai pellegrini, ai mercanti ed ai militari di raggiungere il Tibet occidentale con minori disagi anche durante la stagione monsonica ed il Tibet nel suo complesso diventa sempre più piccolo, meno inaccessibile, più controllabile.

Un altro bell’esempio di vita in trasformazione si può trovare ad Ali, il capoluogo del Tibet occidentale che di tibetano conserva ormai ben poco. La principale caratteristica di questa piccola città di frontiera è di essere il crocevia delle tre sole strade della regione, l’estremo avamposto della colonizzazione militare, l’ultimo centro abitato del Tibet dinanzi alle solitarie pianure che s'infrangono nel Karakorum e nelle aspre giogaie del Kun Lun. L’ansia d'omologazione al miraggio della modernità unita al complesso d'inferiorità tipico delle regioni di confine ha favorito la nascita di moderni edifici tutto vetro e cemento che luccicano in lontananza contro i cieli profondi dell’altipiano. L’incongruità delle architetture è pari solo all’abbandono e alla decadenza che ovunque regnano incontrastate, vere padrone del luogo. Addentrandosi oltre gli asettici quartieri prefabbricati che ospitano le famiglie dei militari si osserva una città dall’aspetto schizofrenico, un’ardita follia dove tra la regale indifferenza è già stata combattuta e persa la lotta per la modernizzazione. L’Ali Guest House pare un grande animale in decomposizione dove a fianco di camere pretenziose arredate con moquette e televisore a colori convivono interi corridoi di stanze in rovina, col soffitto sfondato e le suppellettili ammassate contro muri anneriti dall’acqua che filtra inarrestabile dalle tubazioni spaccate. L’insieme, mischiato a calcinacci e rifiuti, riesce a trasmettere quel fascino singolare che solo l’orrido possiede.

Mentre Lhasa e Ali sono testimoni di un Tibet in trasformazione sotto le spallate potenti del colonialismo socialista, Kashgar appare risparmiata dal cemento, un’antica città dell’Asia che al pari delle consorelle Uzbeke, Bukhara e Samarcanda, ha saputo trarre dalla propria storia la forza di resistere, fino ad ora, al vento del rinnovamento. I lunghi viali di pioppi in duplice fila traggono alimento dall’acqua che scorre nella rete di canali oggi come mille anni fa. Di domenica gli ombrosi boulevard si animano di una variopinta folla multietnica che compra e vende e mangia le cose più strane, dai generi alimentari agli strumenti musicali, da sparuti spiedini d’interiora di capra ai ravioloni cotti a vapore. Come in una catena di montaggio una schiera di cuochi confeziona momo sulle bancarelle, avvolgendo nella sfoglia di pasta il ripieno di carne e grasso da cuocere sopra fumanti recipienti di vimini. Pezzi di carne di montone bollono senza sosta entro enormi pentoloni neri accanto a fabbricanti di gelato che rimestano incessantemente con palette di legno negli orci di rame raffreddati da blocchi di ghiaccio. I televisori a colori in mezzo alla via richiamano piccole folle di spettatori, propinando ininterrottamente film indiani degni della peggiore tradizione nazional popolare. Nella manciata di pollici del piccolo schermo scorrono a tutto volume le gesta guerresche di Hanuman, il dio scimmia, mentre col suo bastone magico sbaraglia turbe di nemici. Al riparo di teli rossi stesi provvisoriamente sopra le stradine del centro, il ceto mercantile Han vende cappelli di pelliccia accanto a sete dai colori sgargianti. Fra crocchi di curiosi i ciarlatani decantano le virtù d’improbabili miscugli mentre sul lato opposto della strada anziani Uyguri dalla lunga barba bianca si fanno rasare il cranio da abili quanto improvvisati barbieri. A fianco, uomini Kirghizi e Tagiki discutono accanitamente davanti ad un mucchio di stoviglie di latta. E’ un’affascinante cacofonia di suoni, odori e sapori, dove, armati di curiosità e tanta pazienza si può acquistare la frutta secca dell’Hunza assieme al tè di Kunming oppure i copricapo Tagiki assieme ai berretti cinesi con la stella rossa. Disperso tra la gente, il turista è un animale raro e relativamente innocuo che, non appena smaltita la sbornia d’immagini, diviene consapevole di un vuoto. Dapprima in modo vago ma poi con certezza s'impone all’attenzione la virtuale assenza delle donne. La folla vociante è composta quasi esclusivamente da uomini che lavorano e trafficano, contrattano e comprano, riducendo il gran mercato ad un affare maschile, sia che si tratti di scegliere il bestiame che di acquistare verdure. In questo, persino la laica Kashgar riverbera l’eco di costumi islamici che si affacciano immutati alla soglia del terzo millennio.

La Gente

“Record di diritti umani in Tibet”, proclama il depliant di propaganda distribuito con sospetta prodigalità al posto di dogana di Taskorgan a quanti si apprestano a lasciare il Celeste Impero per far ingresso in Pakistan attraverso il passo Khunjerab. Chi, come noi, è davvero arrivato dal Tibet, non può trattenere un sorriso amaro al ricordo degli agenti in abiti civili infiltrati nei monasteri alle porte Lhasa, muniti di revolver e cinturone stile Far West a malapena dissimulato sotto la giacca. Nelle ore di chiusura al pubblico non è raro ascoltare i poliziotti seduti all’ombra dei gompa mentre impartiscono ai lama anziani lezioni d'educazione civica di chiaro, ebbene sì, stampo maoista. Molti importanti centri monastici nei dintorni della capitale, come Drepung, Ganden e Sera, sono ridotti a gusci vuoti, sfruttati a fini turistici per l’opportunità che offrono di mantenere una legalità di facciata davanti al mondo. Il salario del clero è ricavato per il 50 per cento dai biglietti d’ingresso mentre l’altra metà se ne va in tasse al governo che, in cambio, fornisce una parte dei fondi necessari alla ricostruzione. Gli apprendisti monaci sono tenuti in una condizione di povertà culturale e di informazioni su quanto accade all’estero, privati, loro malgrado, della memoria storica del proprio paese. A pochi e ben sorvegliati lama è consentito insegnare solo alcune materie ai giovani allievi, previo benestare della censura. Le proteste contro questo stato di cose si attuano per lo più attraverso la chiusura spontanea dei luoghi di culto, ma sono sempre più spesso soffocate dall’interno, dalle guardie armate, senza eccessivo clamore. Il Tashillumpo di Shigatse, dove vivono ancora 400 tra monaci e lama rimane un’eccezione quanto ad autonomia, pur restando perennemente sull’orlo della chiusura ad ogni nuova protesta. Persino la miriade di gompa disseminati nel territorio non sfugge alla regola che vede i poliziotti in borghese, al pari di angeli custodi, condividere la vita quotidiana a fianco dei lama fin negli angoli più remoti del paese, fin dentro ai minuscoli gompa del circuito intorno al sacro Kailas. Tenuto conto dell’ubiquità dei delatori e degli agenti è bene sapere quanto sia facile mettere nei guai con un’effigie del Dalai Lama anche i poveri abitanti dei villaggi per i quali la forza della fede è sempre superiore a quella dei divieti del potere. Tutto questo rientra nelle scelte della spregiudicata politica di Pechino verso il Tibet, in particolare nei confronti dell'ex classe dirigente impersonata dai lama, ridotti oggi al rango di travet governativi. 

Se a Lhasa le donne sono presenti al pari degli uomini nello svolgimento delle attività quotidiane, a Kashgar non è facile scoprire la presenza femminile, almeno se ci si limita a vagare per il mercato. Occorre spingersi a chiedere ospitalità nelle case della città vecchia al mattino per scoprire i luoghi dove vivono e lavorano, impegnate nelle case ad assolvere un ruolo in prevalenza domestico. Gli Uyguri colpiscono per i loro tratti europei, per un colorito chiaro che mette in risalto lineamenti sorprendentemente simili ai nostri. Gli occhi scuri e vivaci spiccano su di un gran naso che rivela antenati turcomanni o arabi. La timidezza delle donne, la ritrosia a svelarsi agli estranei si dissolvono solo all’interno delle abitazioni, quando i mariti, i padri, i fratelli sono fuori al lavoro. Una grande curiosità traspare allora dai sorrisi timidi e il tradizionale tè, offerto nelle tazzine di porcellana con gentile semplicità, esprime quello che le parole non sapranno mai raccontare. Una circostanza analoga è capitata per caso un pomeriggio d’agosto vicino a Sust, nell’alta valle dell’Hunza, tra frutteti d'albicocche mature e campi d’orzo dorati. In questa regione vivono gli ismaeliti, seguaci dell’Aga Khan, gente semplice ma di gran cortesia e dignità. Passeggiando tra i campi lungo una stradina di campagna, abbiamo visto davanti a noi una giovane madre accovacciata tra le spighe appena tagliate, intenta ad allattare il suo bambino. La donna ci ha sorriso dolcemente e il marito accanto a lei ha cortesemente chiesto di riprenderli insieme e di spedire loro la foto una volta rientrati in Italia. La scena non è di quelle che si dimenticano e quel villaggio pakistano resterà per me indissolubilmente legato ad un ricordo di serenità e di pace.

L'Ombelico del Mondo

Ci sono paesi che possiedono un fascino particolare: il viaggiatore che li attraversa si trova come immerso in un’aura ineffabile e lieve che pervade e compenetra le cose. Il Tibet è uno di questi luoghi, un grande attrattore, un polo di sacralità. E’ anche per questo che il monte Kailas, padre dei grandi fiumi dell’India, simboleggia l’archetipo dell’assonanza con il Tutto di una tradizione buddista che si rinnova nel tempo attraverso il rituale del pellegrinaggio gettando un ponte tra un passato che non tornerà più e il futuro dove tutto è possibile. La fede nella promessa di una definitiva liberazione dal dolore, la speranza di una scorciatoia nell’arduo cammino verso l’Illuminazione, la forza della consuetudine nel ripetere gli antichi rituali inducono i fedeli ad un pellegrinaggio fino al lontano Tibet occidentale per compiere il circuito dei luoghi santi sorretti da un’incrollabile forza di volontà. Attorno al Kailas ci si ritrova al fianco di viandanti eterogenei per etnia, cultura e religione, uniti tuttavia nell’atto semplice del camminare intorno ad un monte in capo al mondo che conserva intatto attraverso i secoli il potere di attrarre e affascinare. La molla che spinge noi turisti ipocondriaci a percorrere le brulle pietraie, ansimanti nell’aria rarefatta, seguendo un antico sentiero che offre solo freddo e vento, fatica e affanno, pesantezza e sofferenza è certamente altra di quella dovuta ad una fede umile e caparbia, assoluta e candida, incrollabile, che anima i pellegrini locali. Il tratto che tuttavia ci accomuna è la realizzazione di un sogno, l’appagamento per aver raggiunto una meta agognata attraverso luoghi impervi e disabitati dove le passioni sono alimentate dal contrasto tra il nostro fragile essere e le forze sotterranee di una natura non ancora antropizzata, tanto potenti quanto indifferenti, la cui grandezza ci restituisce in modo ancor più netto la nostra reale dimensione. Una consapevolezza che può lasciare sgomenti ma non indifferenti, sia che indirizzi i pensieri verso entità superumane sia che porti ad accettare di far parte, anche noi minuscole schegge autocoscienti, di quel Tutto che poi è anche il Nulla del buddismo Zen, il Mu. La verità è sfuggente come solo la materia sa essere, pur se entrambe consistono di un’apparente durevolezza e solidità tessute con impalpabili fili d’ordine su una trina di vuoti, che riescono a rendere l’illusione di una realtà dove noi, assieme alle algide montagne, all’orbe terraqueo, all’universo tutto, poggiamo inconsapevoli sul Nulla.

Bibliografia

  1. Robert Byron, Gente di pianura, Dei della montagna (First Russia, Then Tibet) - Biblioteca del Vascello s.r.l., Roma - 1ª Ediz. Apr. ´93. £ 30.000.
  2. Melvyn C. Goldstein, Cynthia M. Beall, Nomads of western Tibet - Odyssey Productions Ltd. H. Kong.´94. £ 30.000.
  3. John Snelling, The Sacred Mountain - East-West Publications, London - 2ª Ediz. ´90, £ 30.000.
  4. Massimo Dusi, Il Lago delle visioni, Racconti Himalayani - Collana Gli Specchi, 1996 Marsilio Editori, pp.168 £ 30.000. 
  5. Victor Chan, Tibet Handbook - a pilgrimage guide - Odyssey Guides - Hong Kong. Feb´94, £ 60.000
  6. Giuseppe Tucci, A Lhasa e oltre - Paperbacks - 1ª Ediz. - Newton Compton Editori, £ 8.000.
  7. Giuseppe Tucci, Tibet ignoto - Paperbacks - 3ª Ediz. gennaio ´88 - Newton Compton Editori, £ 8.000.