Indocina

Un Natale tra Cambogia e Vietnam

Testo di Giuseppe Pompili

 

L'Indocina vista attraverso la lente deformante di un viaggio dai tempi stretti e dagli spostamenti frenetici perde certamente parte del suo fascino, tuttavia questo rimane fino ad ora, per quanto mi riguarda, il viaggio che mi ha regalato i ricordi più belli.

 

Assieme alla Tailandia ed alla Birmania, la Cambogia, il Laos ed il Vietnam costituiscono un insieme di paesi confinanti, ma divisi da frontiere poco permeabili, dilaniati al loro interno da guerre e guerriglie, e governati da sistemi politici radicalmente diversi, che spesso manifestano la loro reciproca ostilità non solamente a parole. Il colonialismo, con il suo seguito di guerre, ha modificato negli ultimi 130 anni l'aspetto e la geografia della regione, dando inizio ad un'epoca di massacri, che continua ancora oggi, le cui conseguenze sono ben visibili nelle popolazioni e nel paesaggio. Viaggiando attraverso l'Indocina si riesce, tuttavia, ad avvertirne l'unità di fondo, dovuta sia a ragioni storiche (l'antico impero Khmer) che all'intreccio di culture e di migrazioni avvenute nel passato e anche in tempi recenti sotto la pressione dei conflitti.

 

La Cambogia si trova dal marzo del '92 sotto il controllo dell'Onu, che ha qui intrapreso il maggiore sforzo pacificatore della sua storia. Gli sforzi diplomatici congiunti dei cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza d'accordo con il governo cambogiano e le tre principali fazioni antagoniste hanno formalmente posto fine alla guerra civile, cedendo il potere nelle aree chiave della difesa, interni, esteri, finanze ed informazione ad un governo di transizione retto dalle nazioni unite in attesa di elezioni libere e democratiche che, in base all'accordo di pace del '91 che ha posto fine a tredici anni di guerra, si dovrebbero tenere nel maggio del '93. A parte il numero di formazioni politiche - in campo ce ne sono oltre 20 - la situazione è confusa, e in certe provincie risulta impossibile raccogliere il numero sufficiente di firme (per legge ne occorrono almeno 5000) necessarie alla formazione delle liste dei candidati. Va da sè che date le condizioni oggettive ivi presenti è già molto se si riuscirà a tenere comunque le elezioni per la data stabilita. Risulta, infatti, che alcune zone a nord-ovest (Pailin) siano ancora controllate dai guerriglieri khmer rossi che hanno fatto sapere di opporsi al voto sino a quando i soldati vietnamiti - che a loro dire sono ancora presenti anche se camuffati - non lasceranno il paese. Per dare maggior peso contrattuale alla loro richiesta hanno sequestrato una dozzina di caschi blu. I militari delle nazioni unite svolgono ora in Cambogia compiti prevalentemente di sorveglianza e la loro presenza è tangibile nella capitale, ove rappresentano un elemento di sopravvivenza per la disastrata economia locale, (ne abbiamo visti alcuni alloggiare nel nostro albergo).

 

Sbarcato a Phnom Penh nel tardo pomeriggio del 22 dicembre, il nostro gruppo si è trattenuto in città solo per la notte, rinviandone di comune accordo la visita a dopo l'escursione nella provincia di Siem Riep, paese vicino a cui si trova il famoso complesso di templi di Angkor. Il Bayon, la cui cima sbrecciata sfida la giungla in altezza, e ancor più l'Angkor Wat, monumentale ed impressionante nella sua estensione e ricchezza di forme, costituiscono da soli un motivo sufficiente per visitare la Cambogia. Questi grandiosi manufatti, rimasti per secoli sepolti dalla giungla, sono tra le più grandi realizzazioni dell'architettura e dell'arte buddista assieme alla pagoda dorata di Shwedagon in Birmania, al tempio di Borobudur in Indonesia e allo stupa di Bodhnath in Nepal.

 

Il tempo per una sia pur breve visita alla capitale è poi venuto a mancare per cause impreviste, che avrebbero potuto ben altrimenti compromettere il viaggio. Così i partecipanti a Indocina 1 & 2 (40 persone che hanno viaggiato divise in due gruppi che si spostavano in parallelo, "separati in casa") si sono dovuti accontentare di ammirare il Palazzo Reale e la Pagoda d'Argento attraverso le inferriate dei cancelli d'ingresso. Le cause del misfatto risalgono alle operazioni d'imbarco all'aeroporto di Siem Riep (situato circa 310 km di strada a Nord di Phnom Penh) per il volo di ritorno dopo la visita ad Angkor. Si è verificato, non si sa bene come, che ai due gruppi di Avventure mancassero le riconferme per il primo degli unici due voli giornalieri diretti a Phnom Penh, nonostante che i biglietti fossero stati acquistati e immediatamente riconfermati appena due giorni prima, presso gli uffici della Kampuchea Airlines a Phnom Penh. Il conseguente ritardo di alcune ore, in sè non grave, avrebbe non solo compromesso la visita alla città, ma ci avrebbe anche costretti ad una sosta notturna fuori programma bloccati alla frontiera tra la Cambogia ed il Vietnam che speravamo di passare quello stesso giorno. Dalla relazione del gruppo Pulice (che ci aveva preceduto lungo il medesimo itinerario, realizzando una prima) avevamo infatti appreso che la frontiera chiude formalmente alle 18, ma che è bene giungervi con almeno un'ora di anticipo per il disbrigo delle formalità, che possono richiedere ore. Questa prospettiva, unita a quella di perdere un giorno sui due previsti a Saigon, ove ci aspettava una serata ben più confortevole nell'albergo prenotato tramite agenzia fin dall'Italia, ha reso un po' concitate le operazioni d'imbarco.

 

L'aeroporto di Siem Riep è attualmente presidiato dai militari delle nazioni unite, tuttavia la situazione è parecchio confusa e non sempre è chiaro chi comanda su chi. Così, quando è apparsa chiara l'intenzione delle autorità aeroportuali cambogiane di non farci partire nonostante ci avessero già consegnato le carte d'imbarco - di colore rosso, probabilmente per metterci a tacere consentendo nel contempo di separarci dagli altri più fortunati passeggeri - abbiamo subodorato l'inganno. In quel frangente, guidati da ben due capigruppo esperti in occupazioni, - il '68 non è passato dunque invano - con un'azione degna della migliore (o peggiore) tradizione di proteste studentesche, si è improvvisata un'irruzione di massa sulla pista, impedendo il decollo all'aereo della Kampuchea (un Ilushin sovietico riverniciato).

 

Alcuni di noi, come la coraggiosa Cristina, si sono seduti sulla pista di fronte al muso dell'aereo, richiamando (volutamente?) alla memoria il ben più noto episodio del giovane che ha fermato la colonna di carri armati cinesi nei giorni di Tian An Men, mentre altri, fra cui i nostri valorosi capigruppo sono saliti a parlamentare - con un'azione rigorosamente non violenta (o quasi) - fin sulla scaletta dell'aereo, dando inizio ad una lunga ed estenuante trattativa (leggasi tira e molla) sotto agli sguardi allibiti di hostess, militari dell'Onu, piloti, e passeggeri "regolari" che ci osservavano tra l'incredulo ed il disgustato. « Ah!, les italiens ... ».

 

Grazie infine alla perseveranza nell'esporre le nostre buone ragioni o forse ancor più grazie alla confusione che avevamo creato sulla pista - eufemismo per sequestro aereo e procurato ritardo in un volo di linea - abbiamo ottenuto di partire per primi sul secondo volo giornaliero e di giungere così a Phnom Penh con sole due ore di ritardo sul previsto, senza altre ben più gravi conseguenze. Non male per dei pirati dell'aria improvvisati!

 

Sfumata così la possibilità di una visita alla città, appena recuperato il grosso dei bagagli (che erano rimasti custoditi in albergo) ci siamo diretti verso la frontiera vietnamita sperando di fare in tempo. L'attesa per il traghettamento del Mekong a Neak Luong sommato al ritardo precedente ci hanno fatto arrivare al posto di frontiera cambogiano di Moc Bai verso il tramonto, ora in cui le zanzare si destano, e come è noto a tutti i viandanti a cui capita di transitare per queste contrade - peraltro pochi - gli indigeni vanno a coricarsi. Da queste parti, strano ma vero, non sembra essere ancora arrivata l'elettricità - opera di Pol Pot, sicuramente - e chi domina è ancora l'alternarsi del giorno e della notte. Comunque sia, vuoi per una sincera inclinazione per i ritmi di Gea, vuoi per un inconscio desiderio di farsi lusingare nel prestare la propria opera fuori orario, l'integerrimo capitano cambogiano, ufficiale al comando del posto di frontiera, se ne era andato a dormire, non senza aver prima dato ordine ai suoi accoliti di non far passare anima viva in sua assenza, benché, ma questo è solo un inciso irrilevante nell'economia del viaggio, ci avessero trovato perfettamente in regola con i visti.

 

In tale delicato frangente ha indubbiamente avuto il suo peso la paziente opera di mediazione e persuasione esperita sul riottoso capitano da Marcello Palazzoli, grande viaggiatore nonché uomo di mondo, che, unita al fascino per l'effigie stampata di George Washington - universalmente riconosciuta, a differenza dell'Onu - ha operato il miracolo (non per niente era la notte di Natale).

 

Da indiscrezioni successive sembra che le argomentazioni addotte nelle lunghe conversazioni avvenute sullo sfondo - mentre il resto dei partecipanti si abbandonava chi alle ciarle, chi al bere, chi alle recriminazioni -, siano state del tipo: « Le signore del gruppo sono esauste e reclamano un posto tranquillo e sicuro ove trascorrere la notte », al fine di impietosire i nostri interlocutori. L'ipotesi è subito rientrata quando la controparte ha ventilato l'idea che a ripartire fossero solo le donne, con i signori uomini fermi per la notte in frontiera a mo' di garanti. E qui, occorre dirlo, è repentinamente risorto lo spirito di gruppo che, data l'ora, si era un po' assopito. All'unanimità ci siamo detti inorriditi all'idea di una tale proditoria ed iniqua separazione e la proposta è subito rientrata, anche se - sia detto ad onor del vero - mai nella mia modesta esperienza mi era capitato di incontrare viaggiatrici così incallite, ai disagi ed ai contrattempi avvezze oltre che pronte ad ogni evenienza.

 

Un pensiero di gratitudine va poi ai solerti doganieri vietnamiti, i quali, nonostante la tarda ora (erano quasi le nove di sera), hanno eseguito alla lettera i loro compiti, con uno zelo ben superiore a quello mostrato dai loro colleghi cambogiani (per non parlare dell'onestà), consentendoci infine di proseguire verso Ho Chi Minh Ville (Saigon), non senza averci prima calpestato, aperto ed ispezionato i bagagli, con uno scrupolo degno di miglior causa, per munirci in ultimo delle indispensabili scartoffie doganali debitamente compilate, controllate e vistate, senza le quali gli spostamenti in Vietnam possono dar luogo a spiacevoli contrattempi.

 

Il resto del viaggio ci ha portato dalla vitale e scatenata Saigon ai claustrofobici cunicoli di Cu Chi, scavati a misura di Vietcong su tre livelli (come al solito il terzo livello è risultato inaccessibile). Questa è la leggendaria cittadella sotterranea, ubicata nel folto della giungla non lontano da Saigon e divenuta uno dei principali centri di resistenza al corrotto regime di Van Thieu nonché un incubo per gli americani. Virtualmente imprendibile, è un labirinto di centinaia di Km2 di estensione - profondo fino a 7 metri - costituito per lo più da stretti passaggi in cui si cammina solo carponi e che si diramano trasformandosi di volta in volta in sale, ospedali da campo, magazzini e trappole mortali che ricordano il pozzo dei rasoi di certi castelli medioevali, certamente non così raffinate ma sicuramente altrettanto efficaci. Ci è stato spiegato, non senza un certo compiacimento, che l'altezza dei cunicoli è tale per cui l'incauto, a cui venisse la malaugurata idea di calarsi da un livello ad un'altro senza essere stato invitato, si trova per un certo tempo esposto con le gambe ed il ventre in basso mentre la testa e la parte superiore del corpo stanno ancora al livello superiore, a meno di non volersi calare a testa in giù, nelle tenebre. Non occorre essere arguti per comprendere come ai soldati americani venissero le crisi di nervi al solo pensiero di entrare qui dentro - ricordate "Platoon"? -. Così, a mali estremi, si risolse di bombardare. Anche se a distanza di quasi vent'anni la vegetazione è in parte ricresciuta, il terreno rimane disseminato da profonde depressioni a forma di scodella con diametro variabile da alcuni metri a più di venti e profonde fino a due. La densità è tale che si è raggiunta la saturazione, cioè le bombe successive, con le loro esplosioni, hanno cancellato crateri già esistenti, finendo col sovrapporsi. Oltre che in Vietnam, un analogo paesaggio si può trovare sui mari lunari! Questo è il risultato del "carpet bombing" dei B52 statunitensi - ovvero le "stratofortress" - nel tentativo, accanito quanto fallito, di annientare questo luogo. Meditate gente, meditate!

 

Risalendo lungo la mitica Strada Nazionale 1, che lega con un nastro lungo oltre 1700 Km il Sud al Nord siamo giunti fino all'antica città imperiale di Huè, - conquistata nel corso dell'offensiva Tet dai Vietcong e successivamente rasa al suolo durante la riconquista da parte delle truppe alleate -, la cui cittadella giace ora semidiroccata assieme alla purpurea città proibita. Il tragitto è durato - incluse le soste fuori programma - circa 36 ore a causa di alcuni guasti fra cui il più serio all'alimentazione, contrattempo che ha costretto gli autisti (formidabili artisti nell'esoterica arte meccanica) ad operare un'eterodossa riparazione a somiglianza di un by-pass coronarico con tanto di tubi che pescavano carburante da taniche poste in cabina e raggiungevano il motore attraverso il finestrino. Abbiamo quindi ammirato le cinque montagne di marmo, nei pressi di Danang, le cui caverne hanno le volte sfondate in più punti, cicatrici indelebili create dalle bombe americane. E poi il volo verso l'austera Hanoi, invasa dalle biciclette quanto le nostre città lo sono dalle automobili.

 

Per raggiungere la baia di Halong - distante 160 km da Hanoi - sono occorse sei interminabili ore su di una strada (ma chiamarla così è decisamente improprio) tanto dissestata che i sobbalzi facevano rimanere il sedere a mezz'aria più a lungo di quanto non rimanesse appoggiato al sedile. Dopo lungo soffrire è giunta la ricompensa. Ammirare la baia ancora immersa in una grigia foschia per poi addentrarsi in battello nel suo labirinto d'isole calcaree, di color grigio-acciaio, verdi per la vegetazione e solcate dal giallo degli strapiombi a picco su di un mare verde smeraldo illuminato dal sole prima pallido e velato poi sempre più vivo e caldo ha significato per me la scoperta - graditissima perchè inaspettata - di una delle meraviglie della natura.

 

Ultima tappa del nostro convulso viaggio è stato l'incantevole Laos, paese ancora a misura d'uomo, fortunatamente risparmiato dagli orrori che hanno brutalizzato i paesi confinanti. Il capodanno festeggiato nella coloniale Vientiane al Riverview Hotel, manco a dirlo con vista sul Mekong, ha segnato il punto di svolta verso ritmi meno frenetici e tempi più rilassati. L'antica città reale di Luang Phabang con le sue pagode dorate custodite dai monaci e i villaggi dei dintorni, dove si distilla il Lau Lao (grappa di riso) e si mastica il rosso betel meriterebbero ben altro spazio che una scarna citazione, ma dovendo concludere vorrei augurare a tutti coloro che si dilettano nel viaggiare e in particolare ad Amedeo Giovanardi, forse l'unico vero viaggiatore del gruppo Indocina 2 (tutti noi non siamo che turisti), infortunatosi al braccio il penultimo giorno investito da un motociclo, di vivere tanto a lungo quanto desiderano e di viaggiare tanto a lungo finché avranno vita.

Bibliografia

  1. Daniel Robinson, Joe Cummings, Vietnam, Laos & Cambodia - a Lonely Planet travel survival kit. - Australia 1991 - 1ª Edizione, febbraio 1991, pp.570 con foto a colori, 32.000 £. Guida in lingua inglese della Lonely Planet