Sikkim

10 Giorni in Sikkim

ovvero le Avventure in Sikkim di Sandra e Giuseppe

Testo di Alessandra Galligioni e Giuseppe Pompili 

L'arrivo

Verso la fine del settimo mese dell’anno del Serpente, mentre il torrido sole del Bengala liquefaceva l’asfalto senza peraltro asciugare l’aria carica d’umidità della stagione monsonica, due pellegrini sudaticci s’incontrarono nella hall di un decadente e stantio albergo di Siliguri: l’uno proveniva dalle aspre e pietrose giogaie del Karakorum, l’altra dal morbido e lussureggiante Bumthang. Un bacio di striscio segnò ad un tempo la fine dei loro viaggi individuali e l’inizio di una nuova avventura insieme. Nell’assolato meriggio indiano il bus per Gangtok era, come al solito, in ritardo suscitando lo sconforto dell’impiegato della compagnia di trasporti e l’irritazione dei passeggeri. Volendo lasciare al più presto il bagno turco bengalese, l’inossidabile duo risolse di salire su di una jeep collettiva che, sebbene leggermente più cara, è il mezzo di trasporto più utilizzato in un Paese dove le strade sono per lo più buche con l’asfalto intorno. Le partenze non avvengono in genere ad orari prefissati, ma sono subordinate al raggiungimento di un numero minimo di passeggeri. In realtà, i nove posti regolamentari ospitano sovente un numero doppio di viaggiatori, fatto che aumenta a dismisura il caldo, gli odori e le gomitate inevitabilmente connessi a un tragitto che richiede 5 o 6 ore di sobbalzi per coprire soli 120 km, guasti meccanici e frane permettendo. La strada nazionale sale serpeggiando lungo le ripide pendici meridionali del Grande Himalaya, ricoperte da un labirinto di pini, abeti, querce, felci e arbusti impenetrabili. Ampie radure visibili qua e là narrano una storia secolare di disboscamenti e saccheggi. L’epilogo, che fa seguito alla colonizzazione nepalese e inglese, ha inizio nel 1975, con l’ingresso del Sikkim nell’Unione Indiana. Da allora, ogni autunno, trascorsa la stagione delle piogge, turbe di cittadini in fuga dall’abbrutimento urbano di Calcutta e dalla monotonia delle circostanti pianure si riversano nel minuscolo stato himalayano trasformandolo in una stazione di villeggiatura a buon mercato. Lo scempio del paesaggio è ben visibile risalendo la carrozzabile che porta alla capitale Gangtok. Ai lati della strada spuntano come funghi velenosi schiere di anonimi edifici in cemento armato, spesso abbandonati e incompleti, che esibiscono solo uno scheletro di nudi pilastri da cui spuntano i ferri d’armatura, a guisa di blasfeme bandiere di preghiera. Più in alto, sugli aerei crinali e lungo i sentieri che conducono ai monasteri arroccati sulle cime dei monti, sventolano gli stendardi veri: lunghe e sottili strisce di stoffa che trasmettono incessantemente al vento le loro preghiere affinché siano disperse ai quattro angoli della terra. I sottili tessuti sono fittamente stampati con orazioni in sanscrito e, innalzati su alte canne di bambù, assolvono ad un ruolo differente a seconda della funzione a cui sono destinati: possono assicurare benessere e prosperità ad una famiglia, scongiurare un malanno oppure difendere un passo montano o un sentiero dalle insidie dei demoni. I colori sono quelli dei cinque elementi fondamentali della cosmogonia lamaista: verde per il legno, bianco per il ferro, rosso per il fuoco, azzurro per l’acqua, giallo per la terra.

La capitale

Gangtok non possiede quasi più nulla del fascino narrato da Satyajit Ray (se non sapete chi è, non preoccupatevi: è uno scrittore noto solo ai giallofili più impenitenti!!), prima i nepalesi e poi gli indiani ne hanno bruciato l'anima, lasciandole solamente le ceneri. E' una città umida e muschiosa, abbarbicata sui monti: gli ingressi delle case più ricche e degli alberghi più importanti sono per lo meno al quarto piano, per entrare nelle locande a buon mercato spesso si devono scendere ripidi e viscidi gradini che assolvono anche alla non entusiasmante funzione di vespasiani. Dei vecchi costumi sikkimesi resta pochissimo, e quel poco va ricercato con pervicacia. Ma che cosa potevano cercare con tanto accanimento quei due viandanti mentre importunavano tutti i venditori del mercato di Lall? Forse informazioni su come raggiungere l'Istituto di Tibetologia? Oppure erano sulle tracce di una partita di afrodisiaci corni di rinoceronte? Seguiamoli passo dopo passo, mentre si addentrano nel labirinto di vicoletti della piazza guidati da una bambina, l'unica ad aver compreso che i due intrepidi ubriaconi cercavano una mescita per assaggiare la bevanda tradizionale chiamata (vedi i casi della vita... ) "tomba". Cosa niente affatto facile, vista la propensione dei nativi alla birra in bottiglia. Ah! la globalizzazione! Giù per una vertiginosa scala di cemento dai gradini sbrecciati e poi ancora lungo un sinistro corridoio odoroso di muffa di un edificio fatiscente, fino a giungere davanti ad una tenda annodata dal colore indecifrabile. Varcata la soglia si parò dinanzi una grande stufa che occupava un angolo di un minuscolo locale fumoso. Le pareti della stanza erano di un bizzarro color pervinca ingrigito dal tempo e dalle chiazze d'umidità, celate da un calendario polveroso e da alcune vecchie foto in bianco e nero. A completare l'arredamento erano sistemate contro il muro tre tavolacci d’assi rozzamente squadrate con relative panche, un fornello per l'acqua e un grande bidone di plastica gialla contenente un intruglio misterioso. I nostri fecero del loro meglio per passare inosservati, e gli altri avventori ce la misero tutta per non farli sentire al centro dell'attenzione, ma i due erano proprio dei novellini!! L’ordine di due “tomba” lasciò interdetti gli astanti ma la padrona del locale, passato l’istante di meraviglia, mise subito loro davanti due ciotole sormontate da un boccale di legno alto circa 30 cm colmo di miglio fermentato con sopra qualche grano di riso pestato, per addolcire il gusto, accanto a un contenitore colmo d’acqua bollente e a lunghe cannucce di bambù dall'estremità arrotondata e perforata. Con l'occhio fisso sui loro vicini, i due ardimentosi copiarono le mosse: versarono un po' d'acqua bollente sul miglio, attesero che schiumasse e si raffreddasse un po' e poi, con nonchalance, infilarono nella poltiglia la cannuccia nerastra sorbendo... una marea di semini!!! Per fortuna un vecchietto pietoso intervenne a soccorrerli, scegliendo loro altre due cannucce dotate di buchi più piccoli e, soprattutto, soffiandone via i semi di miglio dei precedenti bevitori. "Buona, questa tomba! Anzi, ottima! Un poco dolce, peccato che sia calda, altrimenti potrebbe veramente far le veci di una birra!" bisbigliarono tra loro i due complici, con aria di saperla lunga. E un boccale non bastò più: se ne stavano lì, a bere e chiacchierare, alle prese con dosaggi sempre più sapienti di acqua bollente, gustando un liquido via via più diluito. Ma non privo d'alcool. Che anzi si fece sentire tutto nelle gambe quando giunse il momento d'alzarsi e pagare il "pesante" conto di 20 rupie, l'equivalente di mille lire. Lasciata la bettola, all’improvviso uno dei due ardimentosi (che d’ora in poi, per brevità, chiameremo con gli pseudonimi di gp e Sss onde salvaguardarne l’anonimato), sentì impellente il bisogno di servirsi della ritirata. Il conflitto interiore, senza dubbio esacerbato dal miglio ingerito unitamente alle pinte di bevanda ingurgitata, non accennava a placarsi nemmeno all’aria aperta: la fronte di gp s’imperlò tosto di grosse gocce di sudore mentre un malcelato timore gli si dipinse in volto. La toilette della camera d’albergo, a guisa d’un lontano miraggio, pareva allontanarsi sempre più, mentre la preoccupazione si mutava in panico di pari passo al trasformarsi in dolorose fitte della strana sensazione al basso ventre: tutti sintomi che incalzavano un’ormai improcrastinabile liberazione. Ciononostante, il pensiero di doversi dichiarare sconfitto davanti a Sss e scomparire infilandosi nel primo vicolo disponibile accese una minuscola fiaccola d’orgoglio nella tenebra della contingenza, e gp, nel bel mezzo di un profondo discorso sui costumi locali, simulando malcelata indifferenza, non trovò di meglio che uscirsene con un “Ah, a proposito, ma a te non ha fatto proprio nessun effetto la ‘tomba’ ?” allungando nel contempo il passo. Sss, intuendo al volo la gravità della situazione, mellifluamente replicò “Certo che no!!! Non sono mica una debole di stomaco, io!” E, subito dopo, rincarando la dose: “Razza di scansafatiche che non sei altro, non starai mica pensando di ritornare in albergo! Non sono neanche le sei e abbiamo ancora un’oretta di luce da dedicare al monastero di Enchey!!!”. L’espressione di rassegnata costernazione che seguì a queste parole deve aver fatto vibrare una corda di femminile pietà, profondamente sepolta nell’animo di Sss, che aggiunse, a mo’ di contentino: “Ti concedo una sosta di due minuti in camera, pissone!!!”. Ringraziando la sua buona stella per tanta insperata fortuna, gp corse via prima che Sss cambiasse idea o che la natura seguisse implacabile il proprio corso, eventualità parimenti temibili.

Il monastero di Enchey

Il gompa di EncheyIl gompa di Enchey sorge sulla sommità di un cucuzzolo boscoso, non lungi dalla colossale torre della televisione che domina la città. Anche se il dislivello effettivo non supera i duecento metri, i numerosi tornanti della strada che s’inerpica sui fianchi della montagna costringono ad un'ora buona di passeggiata, durante la quale, nella stagione monsonica, può piovere e rasserenarsi sino a tre volte. Guida alla mano, gp s’inoltrò sicuro attraverso il dedalo delle stradine in salita, mentre una Sss sempre più irritata per l’inopinato sforzo domandava vanamente una sigaretta che le offrisse quel conforto che la situazione le negava, essendosi aperte le cateratte del cielo e chiuso il panorama, soffocato dalle nuvole gravide di pioggia. Finalmente, quasi che Avalokiteswara, il Bodhisattva della Misericordia in persona, si fosse mosso a compassione nel vedere i due continuare a salire sotto l’acqua con la testardaggine di chi sa di non aver ormai più un indumento asciutto da salvare, la pioggia cessò e, al termine dell’ennesimo tornante, apparve un cancello che dava l’accesso a un lungo sentiero contornato da aste di preghiera. “Ecco, te l’avevo detto che eravamo a un passo” disse gp. “Tasi, mona” fu la sintesi di un pensiero a lungo represso. Il gompa di Enchey è, come tutti i monasteri del Sikkim, un edificio pesantemente rimaneggiato che del primitivo edificio del XIX secolo conserva solo l’aspetto esteriore. Questo riflette una prassi diffusa non solo nel paese, ma allargata a buona parte dell’arte iconografica tibetana. Nell’arte occidentale sacra l’artista è noto e interpreta i canoni secondo la propria individualità, in quella buddista l’artefice non appare mai - spesso il nome inciso su di una statua o che svolazza nell’angolo dell’affresco è del committente che ‘acquisirà meriti’ per aver omaggiato la divinità - il creatore è del tutto irrilevante rispetto all’oggetto della rappresentazione, codificato secondo norme rigide al punto che i colori, i soggetti, le proporzioni delle figure sono ricalcate da altri modelli. Quando il tempo rovina o cancella un’immagine, non vi è alcuna intenzione di restauro, ma nuove immagini si imprimono su quelle deteriorate e poi di nuovo, all’occorrenza. E’ difficile accettare che affreschi antichi di secoli possano essere ricoperti o raschiati via per far posto a copie più o meno identiche dai colori più brillanti, ma questa è la conseguenza di una diversa concezione dell’arte al servizio della religione. In cima ad una montagna, preceduto e protetto dal più noto e ricco gompa di Phodong, vi è uno dei più bei templi buddisti del Sikkim, Labrang: la sua ‘povertà’ lo ha costretto a trovare sontuosità nelle forme architettoniche, vestendosi di un peculiare edificio ottagonale, rigorosamente bianco, con incastonate formelle dipinte con gli otto simboli sacri del buddismo. All’interno vi è un monaco, che felice racconta che lui stesso, da diversi anni, sta riaffrescando i due piani del tempio “per dare nuova vita” alle imprese di Guru Rimpoche o per riaccendere i colori dei mille Buddha.

Il monastero di Rumtek

Mentre l'incantato isolamento di Labrang ispira tranquillità e le sue massicce mura di pietra grezza imbiancata comunicano forza e antichità, il grosso monastero di Rumtek, il più influente del paese, simboleggia l'influenza dei Karmapa, i lama dai berretti neri che esercitano il dominio spirituale sul paese. I pilastri e le travi di cemento ospitano il tempio principale, lo stupa dorato e un istituto dedito allo studio e all'insegnamento del buddismo. L'elaborata e imponente facciata del tempio splende dei colori brillanti degli affreschi dagli dei guardiani delle quattro direzioni ed è sorretta da imponenti colonne a base quadrata di legno laccato di rosso. Il luccichio delle pagode e la ricchezza cromatica degli affreschi rivelano la giovane età del complesso risalente ai primi anni sessanta, fondato dal capo spirituale dei Karma Kagyu, il sedicesimo Karmapa. Questa setta lamaista aveva la propria sede nel monastero di Tsurpu, nel Tibet centrale, che per otto secoli è rimasto sede dell'Ordine fino alla sua distruzione ad opera delle truppe cinesi nel 1959. Rangjung Rigpe Dorje, leader spirituale nonché 16° Karmapa, fuoriuscì dal Tibet e, attraverso il Bhutan raggiunge il Sikkim, dove il re Chogyal Tashi Namgyal, penultimo nella storia del minuscolo stato, gli donò la terra su cui ora sorge il complesso. Figura di spicco del buddismo tibetano contemporaneo, il XVI Karmapa, ordine del tutto indipendente dai berretti gialli del notissimo Dalai Lama, trovò i fondi per ricostruire il gompa di Tsurpu, trasformandolo nel più importante centro di studi buddisti del Sikkim. Morto nel 1983, la sua reincarnazione, il XVII Karmapa, è un giovinetto tibetano investito dell'autorità spirituale nel 1992 a Tsurpu. La sue effigie campeggia in quasi ogni auto o abitazione del Sikkim, un po' come quella del Dalai Lama in Tibet. È un filo lungo e ingarbugliato, quello che lega il Sikkim al Tibet, fatto di conquiste territoriali coperte dal velo magico della religione, ottenute con le invasioni dei Lama e giustificate con l'autorità morale delle loro reincarnazioni. I Leptcha, originari abitanti della regione, d'indole remissiva e per nulla portati alle armi, divennero sudditi dei tibetani sin dal XIII secolo: il loro Re veniva dal Tibet e la sua investitura doveva essere riconosciuta dal Dalai Lama. Ma anche per il vicino Nepal il bel Sikkim era un gioiello invitante e così, alla fine del XIX secolo, approfittando delle guerre che distraevano il Tibet dai suoi possedimenti, i Leptcha ebbero un nuovo padrone...

Luglio 2001

Bibliografia

  1. Sikkim Guida Let's go £ 55.000.
  2. Andrew - India - Sikkim - Guida in inglese della Lonely Planet 1a Edizione Novembre 1999. pp.312 con foto a colori £ 40.000.